Breve elogio del pessimismo

Ottimismo e pessimismo.
Sano e salutare il primo, deleterio il secondo.
Questo almeno stando al vocabolario, almeno prendendo i due termini nel loro significato originario.
Il che è tutt’altro che scontato, visto come epoche, contesti e particolari avvenimenti spesso e volentieri intendano le parole a modo loro, modificandone il senso e, in alcuni casi, allontanandosi parecchio da quello letterale.
Ad esempio in pieno ‘700, il grande Voltaire quando parlava di “ottimisti” (che nel suo romanzo satirico “Candide” si diverte a fare letteralmente a pezzi) non intendeva certo quelle persone che vedono il bicchiere “mezzo pieno”, né tanto meno quelle persone che hanno un atteggiamento positivo nei confronti della vita cercando sempre di cogliere il meglio da ogni avvenimento. Piuttosto ce l’aveva con quei “ciechi” e quegli “ingenui” che, in una società corrotta e in rovina, i morti per strada, guerra permanente e miseria alle stelle, non solo non fanno niente per cambiarlo, ma restano comunque convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili.

E noi, oggi, 2017, esattamente di cosa parliamo quando parliamo di ottimismo e pessimismo?
Di sicuro la nostra società vive in una sorta di “culto dell’ottimismo” a tutti i costi, a prescindere da tutto e da tutti.
Specie nella sfera politica, dove l’ottimismo è pressoché obbligatorio: per essere vincente, per vincere e convincere, forse addirittura per essere presentabile, prima ancora di qualsiasi competenza o abilità, a un politico si chiede di esibire il proprio ottimismo.
Una delle tante rivoluzioni sociopolitiche operate da quello tsunami che fu, oltre vent’anni fa, l’entrata in politica di Silvio Berlusconi.
Il tre volte premier fece dell’ottimismo la sua bandiera, il suo quid, il suo marchio di fabbrica più vero e duraturo. Autoproclamatosi “re dell’ottimismo” (che, parole sue, “non si è mai visto un pessimista che combina qualcosa di buono nella vita”), sull’ottimismo costruì la sua longevità politica e sempre in nome dell’ottimismo vinse (o meglio stravinse) per ben tre volte le elezioni.
E siccome da oltre vent’anni la politica italiana, fingendo di contestarlo, si è adeguata a Berlusconi cercando di imitarlo in ogni modo, l’ottimismo è diventato l’elemento fondante di tutta la vita politica, tanto per la destra quanto per la sinistra, tanto per elettori quanto per gli eletti.

Ma, ripetiamo: esattamente di cosa parliamo quando parliamo di ottimismo e pessimismo?
L’impressione è che, come e più che nel ‘700 di Voltaire, siamo molto, ma molto distanti dal significato originario delle parole.
L’impressione è che ottimismo non sia più sinonimo di fiducia e speranza, ma semplicemente di promessa. Così come pessimismo non significa più negatività e sfiducia, ma senso della realtà, realismo.
È andata che ha vinto il primo, che la società ha scelto l’ottimismo.
Ha vinto la logica della promessa, non importa se impossibile, inattuabile e inattuata, se completamente al di fuori della realtà. L’importante è che la promessa ci sia. E che chi la pronuncia sia così bravo da farla sembrare vera.
Dal milione di posti di lavoro alla rottamazione, da Berlusconi a Renzi, è così un’unica lunga storia ininterrotta dell’illusione dell’ottimismo, questo ottimismo, al potere.

E il pessimismo? Pessimismo, viceversa, è, semplicemente, tutto ciò che non rientra nei parametri dell’ottimismo, tutto ciò che, direttamente o indirettamente, si frappone tra l’ottimismo e il suo trionfo.
Pessimismo è ormai sinonimo di opposizione, contestazione, non allineamento.
Chi contesta l’impossibilità delle promesse, chi semplicemente non è d’accordo, chi addirittura propone qualcosa di diverso, è un pessimista.
Chi prova a confrontarsi su dati reali, chi vive nella realtà manifestando il proprio realismo, chi esprime dubbi, perplessità, è un pessimista.
Chi ha il coraggio di dire come stanno realmente le cose, è un pessimista, un gufo, un nemico del cambiamento.

Io, personalmente, in questo nuovo vocabolario odierno, sto dalla parte del pessimismo, elogio il pessimista e sono fiero di essere pessimista.

C’è a questo proposito un vecchio, caustico e fulminante, adagio yiddish.
Che recita:
“Nel 1933 a Berlino c’erano ebrei ottimisti ed ebrei pessimisti.
I pessimisti oggi vivono a Manhattan”

#resistenzeRiccardoLestini

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