Tra Burkini e Bikini (o del concetto di libertà)

Nonostante questo, tra i due capi d’abbigliamento balneare, corre uno spazio molto più che immenso e vertiginoso. Così enorme che dentro e attraverso ci passano culture intere, giganteschi sistemi etnici e morali sedimentati nei secoli, decenni brevissimi, quintali di tragedie, infiniti fiumi di sangue, rapporti imperfetti, incontri mancati, integrazioni mai compiute.
Ma, è più che lecito domandarsi: può un semplice e almeno all’apparenza insignificante costume da bagno essere, significare e rappresentare tutto questo? Evidentemente sì, occorre rispondere nostro malgrado, visto il caso transnazionale che ne è sorto, nel tempo – anno 2016 – in cui il Mediterraneo non è più uno specchio d’acqua, ma una pericolante e inquietante polveriera sempre sull’orlo dell’implosione.
Un contesto, un “tutto” veramente immenso e complicato, così complesso che è davvero difficile, forse impossibile, focalizzare l’attenzione “solo” sul burkini, pretendere di parlarne slegandolo e scindendolo dal resto senza rischiare – come effettivamente è accaduto quest’estate, con l’immediata trasformazione di una questione così delicata in caciara da ombrellone con tutta la solita coda di astrusità, insulti e facilonerie d’ogni sorta – di essere tragicamente superficiali e di trovarsi distanti anni luce dall’essenza reale dei problemi.

A differenza del velo integrale – che oltre a questioni generalmente culturali ed etiche pone, per via del volto coperto, oggettivi problemi di sicurezza e ordine pubblico – il burkini rappresenta qualcosa di più sottile e di più macroscopico al tempo stesso: un corpo estraneo, praticamente alieno, un coprirsi il corpo in un luogo – la spiaggia – preposto, per una sorta di legge non scritta ma indiscutibile, allo scoprirsi. Un “fuori contesto” abissale per la zona franca per eccellenza (sempre la spiaggia) del corpo (più o meno) nudo. Incomprensibile e che, come tutto ciò che si fatica a capire, finisce per far paura.

La questione sembra – e forse così è nell’effettivo – ruotare attorno al concetto di libertà.
Chi ha difeso il burkini ha parlato proprio di “libertà”: libertà di scegliere, di essere, di vestirsi come si vuole. E, di conseguenza, anche libertà di mettersi il burkini. Ed effettivamente, messa così, pare una ragione molto più che incontestabile: come si può sindacare o addirittura legiferare sull’abbigliamento, su ciò che rientra nel perimetro inviolabile delle più strette scelte individuali? Come si può sindacare e legiferare sulla sacrosanta libertà di scelta del singolo individuo?

Il problema – o almeno uno degli infiniti problemi che questa storia riesce a mettere in fila – è che il discorso sulla libertà di scelta viene fatto da un punto di vista e da una visione del mondo esclusivamente “occidentale”. Dal punto vi vista cioè di una società che in decenni gloriosi ha orgogliosamente lottato per “il pane e le rose” (ovvero per il necessario e per il superfluo), ottenendo conquiste enormi sia nell’ambito del pane sia in quello delle rose, che benché relativamente recenti si sono radicate immediatamente e oggi, terzo novecento e a cavallo tra i due millenni, sono sostanzialmente date per scontate.
Così, proprio in virtù di questo, è ovvio e scontato, per noi, associare l’idea di un vestito a quella di una scelta individuale, di un gusto, di una comodità personale. Associare l’idea del vestito del giorno a diverse opzioni presenti nell’armadio.

Questo dal nostro punto di vista. Dal punto di vista di chi il burkini lo mette invece, le cose cambiano, e non di poco.
E siccome i punti di vista non mutano soltanto spostandoci da una cultura all’altra ma anche, più semplicemente, mutando decennio all’interno dello stesso background culturale, per capire questo discorso non c’è nemmeno bisogno di tirare in ballo il burkini, basta attingere ai ricordi di ognuno di noi. Ricordo infatti come ancora, tra la fine dei settanta e l’inizio degli ottanta, mia nonna, nata e cresciuta quando ancora le lotte per il pane ma soprattutto quelle per le rose erano ancora molto di là da venire, scendesse in spiaggia con una lunga vestaglia nera a pallini bianchi, abbottonata fino al collo. In teoria era lei a sceglierlo: tra il costume intero, il due pezzi e la vestaglia, in piena libertà mia nonna sceglieva la vestaglia. Questo in teoria appunto. In pratica la vestaglia era il frutto di una cultura completamente maschilista che le avevano inculcato da sempre, ovvero che per una donna mostrare il proprio corpo, esibire nudità anche solo in parte e anche stando in spiaggia, è assolutamente scandaloso e sconveniente.
Un qualcosa che somiglia molto poco a una libera scelta e che, viceversa, somiglia moltissimo a una imposizione. E credo fermamente che per almeno la stragrande maggioranza delle donne che “scelgono” il burkini, sia proprio così (anzi, in molti casi senza dubbio assai peggio di così) e che il termine “libertà” in difesa di questa presunta scelta sia stato oggettivamente usato molto più che a sproposito.

Eppure non credo proprio che la decisione di vietare il burkini presa da molte spiagge francesi e in una prima battuta avallata dal premier Valls sia una soluzione.
Anzi, sinceramente credo che non serva assolutamente a niente. Non perché, come si è affrettato a dire il nostro vicepremier Alfano, si tratterebbe di una “provocazione” verso il mondo arabo. Ma perché – dal momento che parliamo di burkini e non di velo integrale, e quindi di nessun problema legato alla sicurezza – andremmo ad aggiungere segregazione a segregazione, muro su muro e umiliazione a umiliazione. Un procedimento in cui le vittime sarebbero sempre e soltanto loro: le donne.
A queste donne, già segregate da una cultura prettamente maschilista, spesso private di diritti molto più che elementari, segregate soprattutto spesso e volentieri dalla loro stessa famiglia, andremmo a vietare l’unico modo di andare al mare, in spiaggia, una delle poche occasioni di libera uscita in spazi comuni. Non solo, le umilieremmo ulteriormente: costrette dalla nascita a coprirsi, noi, con il divieto, vorremmo costringerle a spogliarle. Una ulteriore violenza.

La nostra libertà non va imposta (come chi continua a voler “esportare” la democrazia), ma mostrata come alternativa.
E questo io penso lo si possa fare esclusivamente lavorando e investendo sull’integrazione (parlo di integrazione, sia chiaro, non di come gestire l’emergenza migranti, sono cose completamente diverse… ), a partire certamente dalla scuola, ma a partire anche – forse soprattutto – dalla condivisione di spazi comuni (solo se gli opposti percorrono il medesimo spazio possono conoscersi e impararsi come possibilità alternativa), dove burkini e bikini (come fu trenta anni fa per il tanga e la vestaglia) possano parlarsi e guardarsi.
E dove con il tempo possano essere realmente scelte libere e dove la sparizione di uno o dell’altro sia dettata non dalla sua proibizione, ma dal fatto che nessuno lo sceglie più.

Concludo: probabilmente ho scritto un articolo pregno fino all’inverosimile di filosofeggiamenti. Ecco, oltre al lavoro sull’integrazione, credo sia auspicabile anche questo: un ritorno alla filosofia, alla complessità del pensiero, a chiedersi e interrogarsi cosa sia la libertà, come muti questo concetto nel tempo e nello spazio e quali possano essere le sue forze e i suoi limiti.
Di sicuro urleremmo meno, saremmo meno sciatti e superficiali. E magari ci chiederemmo quanto siamo liberi noi, quanto questi pantaloni li abbiamo veramente scelti e quanto ci siano stati imposti dalla dittatura delle mode e delle contro mode, quanto le amiche mie darkettine che venivano in spiaggia con gli anfbi sceglievano di essere diverse oppure gli era imposto, per essere diverse, di vestirsi in quel modo.
Ci chiederemmo questo e moltissimo altro. Forse penseremmo troppo. Ma di sicuro la libertà (e con lei altri nostri valori e principi) non sarebbe mai qualcosa di banale e scontato. E la sapremmo difendere con più orgoglio, serietà e profondità. E con orgoglio, serietà e profondità sapremmo proporla come la più alta delle alternative.

#resistenzeRiccardoLestini

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