Venezia decadence (tutta la verità sulla Mostra del Cinema)

Sono stato in laguna, durante la leggendaria Mostra del Cinema di Venezia, quattro volte, in vesti e per motivi sempre diversi. Ma che fossi lì come semplice spettatore, come accreditato regolare o come contestatore, che guardassi lo scorrere quotidiano del festival al di là o al di qua delle transenne, che dormissi in un bell’albergo con vista campanile o accampato nel sottopassaggio di Mestre, il risultato non è cambiato poi molto. Alla fine, me ne sono venuto via con quella sensazione straniante di ovattato stordimento, di vertigine e cerchio alla testa che si ha dopo aver passato un tempo assai consistente in un grande luna park, accecati di luci lampeggianti e suoni elettronici continui, l’odore misto di crauti e croccante nelle narici e il sentirsi avvolti da un alone – non si capisce se confortevole e inquietante – di irrealtà.

Ecco, Venezia è più o meno così. Sfavillante e baraccona, ciarliera e confusa, impegnativa e impegnata. E sottilmente irreale, soprattutto. Un grande, gigantesco cartone di cartapesta dove si intrecciano e s’incrociano gigantesche aspirazioni e bassi istanti, spietati propositi di scalata al successo e disarmanti sincerità artistiche.

Il tutto da qualcosa come 73 anni. 73 anni di proiezioni, polemiche, film brutti, film leggendari, film non capiti, consacrazioni, cadute, risalite. 73 anni di storia del cinema, prima di tutto. Ma anche 73 anni di gossip e paparazzi, dolce vita e notti lunghissime, corna epocali e scandali al sole. 73 anni di mitico (o mitologico) Hotel Excelsior, ad appena trenta metri dal red carpet, via vai di divi (pochi) e imbucati (molti), star e starlette, attori e politici, showgirl e imprenditori, giornalisti ed escort (“che un tempo si chiamavano semplicemente amiche”, mi ricordava il giornalista scafato con cui ho passato una giornata intera l’ultima mia volta al Lido). E ovviamente, 73 anni di transenne a fasciare il red carpet e quei trenta metri di cui sopra che alcuni (di solito i giornalisti e quelli che contano poco o nulla) si fanno a piedi e altri in una macchina offerta dallo sponsor. Transenne al di là delle quali, che piova o ci siano trenta gradi, si accalca una folla stoica ed eterogenea. Che si aspetti Alain Delon o lo sconosciuto nuovo messia del cinema koreano, una starletta televisiva o un ignoto attore iraniano inviso al regime, non importa: loro, al di là delle transenne, sono disposti a starsene lì in piedi ore e ore per dieci minuti di discesa dalle macchina e sfilata sul red carpet. Perché a loro, da 73 anni, non importa chi sei, ma importa che tu sia lì. E se tu sei lì sei certamente qualcuno e vale per forza la pena aspettarti, dedicarti sguardi, grida e applausi, provare a strapparti un autografo (ieri) o un selfie da postare sui social (oggi).

E forse, più di ogni altra cosa, proprio quella folla stoica al di là delle transenne è il vero e proprio “fil rouge” che tiene insieme tutti i 73 anni di storia della Mostra. Perché continua a esserci (nessuna stranezza, la malattia da successo è la più antica, cieca e incurabile del mondo), nonostante, e non è un mistero che l’appeal della kermesse più antica della storia del cinema sia molto più che in caduta libera e che la crisi dilagante non solo non abbia risparmiato Venezia, ma sia uno dei primi luoghi su cui ha deciso di abbattere la sua scure. E allora, da più o meno dieci anni, gli sponsor si sono fatti meno numerosi e più accorti, i fasti sempre più contenuti (che nell’ottica della ‘crisi da ricchi’ equivale a dire che l’intero contorno si è fatto più cafone e picaresco) e la permanenza dei veri protagonisti (attori, registi e via discorrendo) sempre più breve. Una volta (senza andare troppo indietro nel tempo, ancora nei primi anni del millennio era così) il cast dei film presentati al Lido si fermava non certo per tutta la durata della Mostra, ma almeno per un paio giorni, il tempo della conferenza stampa, della proiezione e (soprattutto) della festa notturna a seguire. Oggi i divi dei film sono materialmente a Venezia qualche ora prima della proiezione, brevissime interviste, immancabile passerella sul red carpet e poi, appena si spengono le luci e inizia la proiezione, sono già in macchina in direzione aeroporto. E alle feste che seguono – come si diceva prima sempre più cafone, baraccone e trimalcionesche – ci sono solo pezzi di jet set, ricchi vecchi e nuovi e imbucati di vario genere. Un sottobosco variegato che può permettersi di stazionare a Venezia a proprie spese.

Certo è che, lo si voglia o no, in crisi o in salute, oltre che di storia del cinema la mostra è un pezzo importante di storia d’Italia e che, sempre lo si voglia o no, dalla laguna, spesso e volentieri, a saperle leggere, arrivano indicazioni molto più che interessanti sullo stato generale delle cose, in Italia e non solo. Due piccole note storiche, tanto per gradire: il ’68, nel bene e nel male spartiacque e crocevia cruciale per il secondo novecento dell’Italia e dell’occidente, proprio a Venezia, durante la Mostra, con la contestazione di intellettuali (tra cui Pasolini, Pontecorvo, Faenza, Maselli, Zavattini… ) e studenti, ha conosciuto uno dei suoi momenti più significativi. E come sempre Venezia, con l’imperioso ritorno di faraoniche, monumentali e frivolissime feste da mezzanotte all’alba (rileggiamo Tondelli per capire… ), sia stato il simbolo dell’inizio degli anni del riflusso e del nuovo rampantismo anni ’80.

Oggi, negli ultimi anni, ogni indicazione che giunge dal Lido è nefasta. Non che ci sia bisogno della Mostra del Cinema per cogliere e comprendere la crisi della cultura e della nostra società in generale, ma è comunque interessante soffermarcisi e rifletterci.

Venezia non decade e perde appeal per la qualità dei film che vi vengono presentati, ma per il contesto che sta intorno e per il futuro che attende quasi tutte queste pellicole. Mi spiego, mostre come questa di Venezia (e come quelle di Cannes e Berlino) sono nate e vissute per decenni per un unico scopo: offrire vetrine, visibilità e risonanza internazionali a un certo cinema di qualità, che generalmente si muove al di fuori delle logiche produttive tradizionali e che di conseguenza, senza simili appuntamenti, rischierebbe di restare senza distribuzione e circuitazione. E di conseguenza, di non esistere. Grazie a Venezia e ad altri appuntamenti, giusto per fare un paio di esempi, è stato possibile che grandi registi, grandi film indipendenti, raggiungessero e fossero amati dal grande pubblico, oppure che importanti film sperimentali e di ricerca fornissero spunti all’intera industria cinematografica per innovare e rinnovare il linguaggio filmico.

Da alcuni anni invece, a Venezia e non solo, accade che le grandi serate del Festival (l’inaugurazione anzitutto) vengano fagocitate dalla proiezione di grandi e spettacolari produzioni hollywoodiane. Alcuni di questi certamente splendidi film senza altro da aggiungere, ma che con la Mostra non c’entrano niente per il semplice fatto che non ne hanno bisogno: già prodotti dalle più grandi majors del pianeta, sono nelle sale di tutto il mondo con un semplice schiocco di dita, in migliaia e migliaia di copie. Viceversa, i film indipendenti che vivono per questo appuntamento, non vengono sostenuti da pubblicità adeguate, non hanno (nemmeno chi vince il Leone d’Oro) una vetrina sufficiente e la conseguenza, drammatica, è che la stragrande maggioranza dei film proiettati a Venezia (e a Cannes, e a Berlino… per non parlare di Locarno e via dicendo… ) non arriva mai in sala. Decine e decine di film, alcuni belli, altri importanti, qualcuno di certo splendido, che non vedremo mai.

Eppure, una cultura è in salute quando nel cinema come nelle altre arti, convivono prodotti “commerciali” e “popolari” e prodotti “d’essai” e “d’autore”, due in continuo rapporto dialettico tra di loro, che si inffluenzano – le leggende nascono proprio dal rendere fruibile la ricerca d’élite e d’avanguardia (nella musica, ad esempio, i Beatles hanno fatto proprio questo)-, si rincorrono e, soprattutto, offrono un panorama variegato e plurale. Questa varietà, questa possibilità di scelta oggi viene negata: il film in concorso a Venezia non raggiunge le sale non perché non piace al pubblico, ma perché si fa in modo che il pubblico non ne sia a conoscenza. Si distruggono così, in un colpo solo, due fondamenti della cultura: l’idea che possa esistere un sistema produttivo semplicemente diverso da quello ufficiale delle majors e l’idea che valga la pena di rischiare per offrire un prodotto artistico diverso e innovativo.

E per concludere si pensi anche al leggendario ruolo del Direttore della Mostra: fino a poco tempo la sua nomina era teatro di scontri politici all’ultimo sangue, fino ai limiti dell’assurdo. Ancora nel 2003 (uno dei quattro anni in cui sono stato presente al Lido), l’allora governo Berlusconi fu messo letteralmente alla gogna perché il direttore de Halden (voluto dal ministro Urbani e da tutto lo stato maggiore di Forza Italia) non fu in grado di far vincere il Leone d’Oro a “Buongiorno Notte” di Marco Bellocchio (il regista ateo e anarchico che non è mai stato comunista ma è comunque sempre piaciuto a comunisti e postcomunisti, e che piacendo pure a Ferrara piaceva pure alla destra liberale). E, per lavare l’onta immane, Berlusconi in persona si adoperò per rimuovere all’istante De Halden. Oggi, i direttori di Mostra e Biennale, Barbera e Baratta, vanno avanti a paciose e sonnolente conferme nell’indifferenza generale. Quando la politica esce da qualcosa di solito è un buon segno, ma in questo caso sta a sottolineare come si ritenga, oramai, completamente inutile cinema e cultura, come ormai tutta la baracca sia stata messa in sicurezza, resa una placida prateria senza sorprese, senza voci contrarie (e se ci sono, sono comunque impossibilitate a farsi sentire dai più) e senza rischi che qualcosa cambi o si rinnovi.

Stasera parte la Mostra e, almeno io, non mi aspetto nulla di nuovo.

L’ennesimo brutto segno.

RL

#resistenzeRiccardoLestini

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