Insegnanti italiani: andate a lavorare! (risposta a Mario Lavia)

“INSEGNANTI ITALIANI? MA ANDATE A LAVORARE!!”

Queste le parole rivolte dal giornalista de l’Unità MARIO LAVIA ai docenti in seguito alle proteste – che non accennano a placarsi, anzi continuano incessanti – contro “la Buona Scuola”.

Questa la mia risposta “ufficiale”, già inviata al diretto interessato.

Egregio dott. Lavia,

qualche settimana fa, dopo un acceso dibattito con il Suo collega Rondolino (che aveva auspicato che la polizia “massacrasse di botte” gli insegnanti che manifestavano contro la “Buona Scuola”), avevo deciso di prendermi una sorta di “pausa di riflessione”.

Avevo deciso cioè – almeno per un po’ – di non rispondere più a simili provocazioni, di non controbattere più a certa mala stampa.
Non per stanchezza, bensì per lucida opportunità. Ho pensato in sostanza che sarebbe stato meglio – per me e per la classe docente cui appartengo – impiegare forze ed energie per organizzare e manifestare costruttivamente la mia contrareità a quell’abominio che chiamate riforma, piuttosto che cadere nella trappola del risentimento e dell’esasperazione rincorrendo continuamente le provocazioni di cui sopra.

Così ho fatto e così sto facendo.

Eppure, egregio Lavia, nonostante questo non posso non rispondere alle Sue recenti parole.

Non per risentimento: la Sua frase non mi tocca nel mio stretto personale, dal momento che – da docente – lavoro senza bisogno che qualcuno mi inviti a farlo. Lo faccio da più di dieci anni, da quando cioè ho i titoli per farlo (i titoli Lavia, quei titoli che per pudore non sto qui ad elencarLe, ma che sono l’elemento concreto e tangibile di quella “meritocrazia” di cui tanto Vi riempite la bocca).

E nemmeno per esasperazione. Esasperato lo sono da tempo, e non è certo la Sua esternazione ad alzare irrimediabilmente il termometro.

Io Le rispondo per indignazione.

Le rispondo indignato dalla miseria, dalla pochezza e dalla superficialità aberrante con cui si risponde a proteste e recriminazioni civili e articolate di un’intera classe lavoratrice.

Indignato dalla violenza becera, sprezzante e totalitaria con cui frasari da bar e mercato si fanno passare per “articoli giornalistici”, “informazione”, “approfondimento”.

Indignato dalla maniera criminale con cui si censura la complessità e l’importanza di una questione vitale e gigantesca come la scuola; dalla maniera criminale con cui si indirizza e si ammaestra l’opinione pubblica obbligandola a prendere simili agghiaccianti semplificazioni da picchiatori di periferia come verità rivelate.

E ho la pretesa di potermela permettere, l’indignazione.Perché, da docente e conoscitore del sistema scolastico, del mio mestiere conosco bene anche e soprattutto le storture, i limiti, le criticità e le aberrazioni. E non li nascondo.

Il cuore di quella protesta che avete voluto a tutti i costi oscurare, censurare e ridurre al ridicolo, non è infatti – mi permetto di ricordarLe – la difesa di privilegi di una classe lavoratrice che si crede perfetta. Al contrario, è la DIFESA DI DIRITTI per una classe lavoratrice che, proprio in quanto consapevole della propria imperfezione, attraverso la loro difesa vuole migliorarsi e non cadere nel baratro (e trascinarci di conseguenza centinaia di migliaia di studenti innocenti).

Vorrei augurarLe la medesima consapevolezza per la Sua classe lavoratrice, ma non mi è possibile. Lei, Lavia, non solo non è consapevole delle storture che affliggono il mondo della stampa: Lei è la stortura.

Lei – e il giornale per cui lavora – è uno degli esempi più completi e compiuti di “ufficio pubblicitario del potere” travestito da giornalismo. Uno degli esempi più completi e compiuti di rinuncia della libertà di stampa e della verità in nome del servilismo bieco, untuoso, interessato e assoluto agli interessi del potere. Come i cinegiornali fascisti, Lei non fa informazione: Lei edifica l’immagine fasulla di un paese inesistente a immagine e somiglianza del Premier.

Nel congedarmi e nel salutarLa, non posso quindi fare altro che ribaltare il Suo invito: ci vada Lei, Lavia, a lavorare. A lavorare sul serio. Possibilmente ricordando che “andare a lavorare” non significa soltanto timbrare un cartellino, ma anche difendere e rispettare i principi che il lavoro che si è avuta la fortuna di scegliere sottende.

Cordiali saluti,
Riccardo Lestini – un docente indignato

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