20 luglio

Finalmente in ferie, mi godo i ritmi splendidamente lenti, quasi irreali, di una villeggiatura ostinatamente voluta – e, vivaddio, ottenuta – al riparo da qualsiasi attività, fisica o mentale che sia.
Tutto ciò che occupa solitamente le mie giornate – pc compreso – è stato volutamente lasciato a casa, alle spalle: lavoro dimenticato, blog chiuso, bozze del libro abbandonate, copione del prossimo spettacolo non pervenuto.
Eppure, nonostante questo, il 20 luglio non è una giornata come tutte le altre. Non lo è mai stata da sedici anni a questa parte e non lo sarà per il resto dei miei giorni.
C’è una potenza feroce, viva, purtroppo ancora sanguinante in questo giorno (che no, non è proprio una ricorrenza, ma qualcosa di molto più complicato), tale da farmi scattare in piedi, abbandonare il mio ozio calcolato e mettermi a scrivere (drammaticamente dal telefonino, per di più).
Forse non avrei scritto nulla quest’anno, forse me ne sarei stato semplicemente solo con i miei ricordi e con le mie ferite, se ieri il capo della Polizia Gabrielli non avesse rilasciato una – per me – ben più che importante intervista a Repubblica.
Non so in quanti l’abbiano letta (di sicuro i Tg nazionali, ieri, non ne hanno dato notizia alcuna), eppure sono parole davvero importanti, clamorose oserei dire. Questo perché per la prima volta da sedici anni a questa parte, un esponente di rilievo delle Forze dell’ordine, ha avuto il coraggio di fare un’analisi completa, reale e approfondita di quei tragici giorni del G8 di Genova del luglio 2001. E, soprattutto, di catalogare quei giorni come una delle pagine più nere della storia della nostra repubblica, di riconoscere il fallimento totale della gestione dell’ordine pubblico. E infine, cosa più importante, di riconoscere come oggettive le responsabilità delle forze dell’ordine nei massacri indiscriminati verso manifestanti inermi, nelle violenze atroci, nella sospensione sistematica dello stato di diritto, chiamando finalmente le cose con il loro nome: giustizia sommaria, tortura, mattanza.
Di dire in sostanza quello che noi – reduci, militanti, attivisti – stiamo gridando – tragicamente inascoltati – da sedici anni.
Fino ad oggi l’unico poliziotto “di peso” ad aver avuto parole di condanna netta e indignata per i fatti del G8 era stato il commissario Montalbano.
Oggi, dopo le parole di un personaggio di fantasia, arrivano finalmente quelle di uno in carne e ossa.
Parole che aspettavamo, ma non per chissà quale tardivo “risarcimento” danni (quelle ferite, quell’odore assurdo di lacrimogeni misto a salsedine, quel sibilo dei manganelli roteanti sotto il sole cocente e quel pazzesco senso di colpa per essere ancora vivo – e chi, come me, era a Genova quei giorni sa benissimo di cosa parlo – nessuno potrà mai guarirli), ma perché Genova è stato un avvenimento colossale. Così enorme e gigantesco da dover necessariamente trovare un posto di assoluto rilievo nella memoria collettiva. Non solo di chi c’era, non solo di quelli che, come me, in quei giorni hanno dato un senso alla parola “generazione”, non solo di chi se ne è interessato dopo. Ma di tutti, di una nazione intera.
Ma una memoria collettiva può esistere solo se viene restituita la verità, storica, oggettiva, fondata ed evidente. E fino a oggi questo non è successo, la verità è stata continuamente sepolta sotto le più assurde vulgate menzognere e fasulle, continuamente sepolta da omissioni calcolate, silenzi agghiaccianti, depistaggi interessati, falsità costruite ad arte.
Bastano le dichiarazioni del capo della polizia per ritrovare la strada della memoria storica e collettiva?
No, non bastano affatto, ma possono essere un primo passo, un primo squarcio in un muro di gomma finora impenetrabile.
Non bastano soprattutto perché Gabrielli parla esclusivamente, appunto, di memoria. Quando invece la memoria, il ricordo, non è che una parte di un tutto ben più complesso.
Un tutto che ci dice, dandocene testimonianza ogni giorno, come Genova sia soprattutto presente: un presente di globalizzazione disumana, di distruzione del tessuto sociale, di diritti sempre più spesso negati, di omologazione selvaggia, di spazio per il dissenso sempre più inesistente. Un presente di cui Genova non è stata solo una pagina nera, ma il prologo clamoroso.
Ecco, questo Gabrielli non solo non lo dice, ma tende a negarlo. Questo – assieme ad un altro paio di punti dell’intervista con cui non concordo affatto – non ridimensiona certo la portata della cosa.
Resta un principio di dialogo negato per sedici anni e resta, soprattutto, un passaggio forse più importante di tutto il resto e su cui aprire più di una riflessione. Ovvero che, come cerco di spiegare da sedici anni, il G8 di Genova – e i silenzi e le menzogne in proposito – non furono “berlusconiani”, cioè non accaddero perché Berlusconi e le destre erano al governo, così come i processi e le condanne ai responsabili non furono “antiberlusconiani”, cioè non furono una vendetta della magistratura “rossa” verso l’odiato cavaliere.
Al contrario, l’insieme di silenzi, omissioni, menzogne e vergogne sul G8 fu assolutamente bipartisan.
Il G8 fu preparato dal centrosinistra (il tragico prologo di Napoli, i vertici della Polizia di allora tutti fedelissimi di D’Alema) e portato a compimento dal centrodestra (Fini, praticamente in cabina di regia nelle operazioni dei carabinieri, Castelli “tutore” di Bolzaneto e Scajola decisivo per l’assalto alla Diaz). A negare commissioni parlamentari di inchiesta furono tanto il centrodestra (2001-2006) quanto il centrosinistra (2006-2008). E la magistratura non si vendicò di Berlusconi, ma risolse la questione “all’italiana”, allestendo processi spesso ridicoli, inadeguati e farseschi, che nella migliore delle ipotesi colpivano singoli stracci, negando continuamente la natura “sistemica” di quanto accaduto.
Ed è proprio da qui, da queste riflessioni, dall’analisi di questa “logica delle convergenze” che, a mio avviso, deve necessariamente partire qualsiasi lavoro di comprensione, restituzione della verità e costruzione di una memoria collettiva circa il G8.

E mi fermo qui, almeno con la scrittura.
Con i pensieri invece no, non mi fermerò affatto. Al contrario me ne andrò lontano, lontanissimo, così lontano da tornare proprio lì, dov’ero quel venerdì 20 luglio di sedici anni fa: a cento metri da piazza Alimonda, dove in un certo senso non ho mai smesso di stare.
Ciao, Carlé…

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