Come fu che recitai a pranzo

Insomma, com’è e come non è, “Con il tuo sasso”, spettacolo/ossessione della mia vita, cordone ombelicale che non c’è proprio verso di mettere a tacere, circa undici (undici!!) anni di storia su palco, è ripartito. Domenica scorsa, due giorni fa, per l’esattezza. Ma non è questa la notizia. Del suo e nostro (ennesimo) ritorno in scena ne avevo già ampiamente parlato nei giorni scorsi. E’ ripartito, andrà, si (ri)fermerà e ripartirà ancora. Coi soliti quintali di rabbia e bestemmie e amore che da undici anni mi porto appresso su e giù per lo stivale (isole comprese e non solo).
La notizia – almeno per me – è come è ripartito. Una notizia, o meglio una storia, che mi piacerebbe condividere anzitutto con gli operatori del settore, colleghi attori, colleghi registi, colleghi autori, e poi con organizzatori, direttori artistici, tecnici, critici, giornalisti, esegeti. E infine con tutti gli interessati, pubblico effettivo e/o potenziale.
Il conto repliche, da quella remota estate 2003, dice che domenica scorsa si è consumata la numero 455. Quindi insomma, mica per sboronaggine, ma 455 repliche sono mica-uno-scherzo, al punto che uno si sente affatto esagerato a dire di averlo fatto in tutti i luoghi possibili, in tutte le salse, in tutti i contesti belli/brutti/deprimenti/esaltanti, con annesse&connesse tutte le possibili varianti di sfumatura.
Eppure. Eppure succede che un amico/fratello di penna/collega di malinconie amorose/compagno di progetti mai avverati per coincidenze avverse (soprattutto sue) e negligenze imperdonabili (soprattutto mie)/ gemello di una sventura cinematografica fiorentina inenarrabile, tale Giuseppe Gori Savellini, mi piazza sta data nella sua Siena, nel bel mezzo di un festival teatrale, pare l’ultimo sopravvissuto (anche questo tra mille bestemmie) di una città, come la mia Firenze, ormai al più completo collasso culturale che la storia ricordi. La data in questione è il 16 marzo. Una data come un’altra, un festival come un altro, una Siena come un’altra. Invece no, neanche per sogno. La data 455, almeno per me, è di quelle da ricordo indelebile. Il buon Gori Savellini m’aveva spiegato sommariamente la location, con parole tipo “il teatro è in casa….cioè, proprio dentro una casa”. E fin qui tutto a posto, niente di sconvolgente. Poi al telefono l’indomita Margherita, organizzatrice del festival con tutta la squadra dei Topi Dalmata (a proposito, il 28 i Topi sono in scena a Siena, vorrete mica mancare??) ed effettiva proprietaria della suddetta casa-teatro, mi spiega che andrò in scena in un brunch teatrale. Cioè in una sorta di aperipranzoteatrale. Ma anche qui, ci sta (a parte che a quell’ora di domenica solitamente sono in fase rem…).
La sorpresa, ciò che mi resterà dentro e che davvero spero non si perda né si esaurisca con domenica e con il mio spettacolo, è stata la modalità del tutto. Anzitutto, il monologo lo spezzo in tre parti: la prima tra l’aperitivo e il primo piatto, la seconda tra primo e secondo, l’ultima prima del dolce (tra l’altro, torta di mele da applausi). Tra una parte e l’altra, se ne discute. Cioè, ne discutono l’autore/interprete (cioè io) e gli spettatori. Siamo in pochi, pochissimi, ma non importa. Se ne discute nel senso che gli spettatori possono (anzi, devono) chiedere all’autore/interprete chiarimenti, esprimere approvazione, sollevare dubbi, avanzare dubbi, critiche, formulare ipotesi alternative. Insomma, non i soliti commenti fatti alla fine dello spettacolo, non la solita chiacchierata sull’uscio del camerino o nella cena di rito del dopo show. Ma una critica “in itinere” dello spettacolo, una critica dello spettacolo nel suo stesso svolgersi.
Non so cosa state pensando voi, cari colleghi teatranti, nel leggere questo mio resoconto. Non so se riesco a essere sufficientemente chiaro (ho ancora addosso l’emozione, mi manca la giusta distanza). Non so se la cosa vi sta incuriosendo o vi sembra assurda. Perché lo so, lo so bene che l’unità di uno spettacolo, il suo scorrere fluido senza interruzioni è qualcosa di sacro. Però…però….insomma, siamo persone che accettano di mostrarsi sopra un palcoscenico, artisti che mettono letteralmente in gioco faccia e corpo, gente che ha scelto coscientemente di vivere mettendosi in discussione. Insomma, non so se siete d’accordo, ma che cos’è il teatro, quella cosa mai definitiva che cambia di sera in sera e di replica in replica e mai uguale a se stesso, se non una continua, immensa e incessante messa in discussione? Allora, se come penso il teatro sia proprio questo, credo che ogni tanto la sacralità di cui sopra occorrerebbe metterla da parte e metterci in discussione in maniera totale, assoluta, noi e gli spettacoli che proponiamo. Anche se lo spettacolo in questione lo facciamo da undici anni e siamo portati a pensare che, porca troia, se lo facciamo da così tanto tempo un motivo ci sarà e che cazzo vuoi mettere in discussione?
Vi dico la verità. Per me, trovarmi tra una portata e l’altra seduto in mezzo a spettatori che discutevano con me – e tra di loro – di me e della mia creatura, che mi chiedevano precisazioni, che mi domandavano perché non avessi inserito la tal cosa, che mi dicevano apertamente quali fossero le cose che secondo loro funzionavano di più e quali non funzionavano, quali fossero le parti che li avevano emozionati e quali quelle che invece non li avevano convinti, be’, sì, è stato spiazzante, così come è stato faticoso, spiazzante e deconcentrante interrompere e ricominciare tre volte uno spettacolo che per undici anni e 454 volte è stato recitato di filata.
Però, vi assicuro, è stato soprattutto esaltante. A parte che quella discussione aperta e senza falsità (anche questo: quante volte siamo ipocriti nei giudizi e nei commenti a margine degli spettacoli che vediamo e commentiamo?), ha scatenato un giro nel mio mondo di ricordi privati, frammenti di G8 perduti e pezzi memorabili della lunghissima tournée….roba che se alla fine restavo un’altra mezzora e soprattutto bevevo un’altra grappa avrei raccontato la storia della mia vita. Ma più di ogni altra cosa è stato arricchente. Un confronto fuori dai canoni consueti, ma reale, che ha messo in luce me stesso, la mia parte più vera di uomo/artista, le mie esigenze più profonde e sincere. E mi ha fatto guardare il mio lavoro da ottiche impensate e impensabili.
Un’esperienza unica, in definitiva. Importante. E a parte il grazie per niente di circostanza a chi c’era, a Giuseppe, a Margherita, ai Topi e a tutti gli altri, io spero che questa formula venga riproposta. Perché credo che tutti gli attori, tutti gli artisti, prima o poi dovrebbero provarla. Non so se tutti possano essere disponibili a prestarsi a una cosa simile, ma farebbe crescere tutti: interpreti e spettatori. Inutile riempirci la bocca di belle locuzioni tipo Teatro Forum, Spettatore Attivo e via dicendo, se poi di fronte a simili esperimenti ci tiriamo indietro.
Mi ha fatto ripensare al vecchio e amato e mai troppo compianto Freak Antoni, a quando molti anni or sono dividemmo il palco della Flog, a Firenze. Quella sera lui improvvisò sul palco una canzone che aveva scritto (o meglio abbozzato e strimpellato) un’ora prima, venendo in macchina da Bologna. Durante l’esibizione si fermava a ogni strofa, ne discuteva con il pubblico e poi riprendeva. Fu un successo apocalittico. Nei camerini, lui ed io, discutemmo a lungo di quella straordinaria reazione del pubblico. Lui disse che a volte bisognava andare in scena senza mutande, a culo nudo. Ogni tanto occorreva rendere il pubblico partecipe del processo creativo a trecentosessanta gradi. Se sei un artista onesto, ne esci arricchito per forza.
Quelle parole del vecchio Freak le registrai in testa, certo che fossero un insegnamento importantissimo. Domenica, a casa dei Topi, credo finalmente di aver capito.

RL

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