Ma cosa vuol dire scrivere? (uno scrittore e le sue “Solitudini”)

Eccomi qua, cinque mesi dopo la sua pubblicazione, ancora in giro con il mio libro “Solitudini”, ancora in giro a parlarne, a rispondere a domande, problemi, discussioni. Oggi all’università per esempio, in un incontro preliminare con alcuni studenti che le mie poesie le hanno addirittura studiate, sviscerate, analizzate. E che il 3 aprile ci faranno niente di meno che una conferenza. Cose splendide, meravigliose, importanti. Cose che riempiono d’orgoglio, di felicità. Ma anche di paura, di imbarazzo. Tutte quelle domande e la paura di non avere risposte all’altezza. Tipo la solita domanda “ma cosa vuol dire essere scrittore, cosa vuol dire scrivere?”, oppure “lei perché ha scritto questo libro?”. Ci dica Lestini, ci dica….ma che vi dico, ragazzi, davvero che vi dico? Domande legittime per carità, che se non le chiedi a uno scrittore a chi le chiedi? Ma io non lo so, non lo so davvero.
Chissà. Scrivere è un gran casino. E cercare di spiegare ciò che si scrive è impossibile.
Quando un giorno imprecisato della mia infanzia, felice nonostante tutto, decisi che volevo essere uno scrittore, non desideravo altro che raccontare storie. E, se possibile, emozionare, appassionare, divertire. Non so se ci sono riuscito, se ci sto riuscendo né se ci riuscirò. So però che scrivere è senz’altro l’avventura più clamorosa, entusiasmante e avvincente che abbia avuto il privilegio di vivere. Certo non è facile: la bellezza ha sempre un prezzo immenso e smisurato. Così scrivere costa quantità sovrumane di solitudine, menzogne, lacrime, sangue, fango, polvere, tempesta. Quantità sovrumane di vita reale buttate in mare, sprecate, distrutte, annientate. Scrivere rende inaffidabili, sfuggenti, bugiardi, pazzi. Un capitale immenso di miseria da pagare che non ti verrà mai reso indietro, se non sotto forma di vita in carta e inchiostro dove tutto, magicamente, ti appare esattamente come dovrebbe essere.
L’ovvio e immenso egocentrismo di chi scrive, e pretende di essere letto, potrebbe far pensare che non ci sia niente di più esaltante che mettere la parola fine al proprio racconto, impacchettarlo e gettarlo nella mischia del mondo. Invece, per quanto mi riguarda, separarsi dalle proprie opere è uno degli aspetti più difficili e dolorosi dello scrivere. Non ho mai scritto per qualcuno. Ho sempre scritto solo ed esclusivamente per me stesso, depositando sulla carta macigni e scorie di vita interiore, pezzi d’anima, percorsi interiori allucinati e allucinanti. Decidere che un qualcosa è definitivamente concluso, che la parola fine è finalmente arrivata, vuol dire abbandonare se stessi, rinunciare per sempre a un pezzo della propria vita. E darla agli altri, a un oceano potenzialmente sterminato di lettori, e lasciare che la facciano propria, la stravolgano, la rendano irriconoscibile.
Forse è proprio questo il miracolo della letteratura, forse risiede proprio qui il mistero: scrivere per se stessi e, tuttavia, tuo malgrado, scrivere per gli altri, trasformare incubi personali in strade in cui sconosciute e sconosciuti possano riconoscersi e ritrovarsi.
Messa così, potrebbe sembrare un clamoroso atto d’amore. E in un certo senso lo è. Ma l’amore, quello vero, è anche (soprattutto?) violenza e tradimento. E allora posso dire che scrivere è anche un deliberato e sconsiderato atto di violenza, contro se stessi e contro gli altri, un tacito accordo vagamente masochista tra chi scrive e chi legge. Chi è, in fondo, uno scrittore, se non un uomo che trova pace, equilibrio, felicità, che si lava la coscienza scaricando il proprio fango e la propria merda dentro pagine e pagine? Un uomo che regala tristezze e orrori e mostri agli altri travestendoli di poesia?
Questo libro mi è costato qualcosa come dieci anni di vita. Scrivere queste poesie, in momenti e luoghi e sensazioni differenti, è stato come vivere una sensazionale storia d’amore, come gettare sale su miliardi di ferite incurabili che mi porto dentro dalla nascita, e al tempo stesso è stato come bere acqua fresca nel deserto e salvarsi dalla morte. Appunto, il più grande atto d’amore, di autolesionismo e di violenza contro il mondo che la mia breve vita, a tutt’oggi, sia riuscita a produrre.
Ma non posso raccontarvi la storia di questi undici anni, non posso proprio. Dovrei raccontarvi di infiniti silenzi, di strade percorse col cuore in gola, di strappi e rincorse, appuntamenti mancati, tradimenti, baci da perderci il fiato, capelli e occhi che la notte non mi hanno fatto dormire. Non posso, e non avrebbe senso. Sono cose che non vi riguardano. A voi riguardano le poesie, non il me stesso che le ha generate. E anche se generarle è un atto omicida travestito da carità, là dentro ci sono emozioni, emozioni che neanch’io immagino e che spero possano arrivarvi.
Allora scrivere vuol dire questo, solo questo, e scusate se mi sono dilungato colsì tanto: vuol dire provare ad emozionare chi legge. Se ci sono riuscito, allora davvero non sono state inutili, tutte queste solitudini.

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