Di cosa e perché scriviamo

Scrivo perché non so fare altro, perché non ho nient’altro da dare o lasciare a me stesso o a chiunque si interessi ai miei occhi vaghi o al mio incerto camminare su questa terra. Perché vorrei che le storie sgorgate via dalla mia penna come acqua dalle rocce fossero tutto ciò che rimanga di me, quando tutto di me sarà dissolto.
Scrivere è una malattia e un privilegio. Scrivere è una vertigine senza fondo, un baratro spaventoso e dolcissimo che risuona tutte le musiche del mondo.
Scrivo di me, solo di me, sempre di me, di cose che mi sono entrate dentro come un pugno o che mi hanno accarezzato così dolcemente da spezzarmi le gambe.
Scrivere è il sogno smisurato di raccontare ogni cosa, ogni avvenimento, ogni frammento bruciante del mio stomaco, ogni microcosmo visto, vissuto o soltanto sfiorato. Scrivere è la consapevolezza disperata di non poterci mai riuscire.
Ci sono notti dove l’alba non è nemmeno un’ipotesi remota, dove i minuti battono il tempo di tutti frammenti di vita che ancora giacciono negli abissi della mia memoria senza essere transitati per la sbornia perenne della mia vita. Vorrei raccontarli tutti, uno per uno, non tralasciare nemmeno un attimo, nemmeno un volto, nemmeno un misero dettaglio. Ma troppo veloce corre la vita e troppo lento è il tempo della scrittura, ed è a questo perenne limbo, a quest’oscena terra di mezzo tra rapidità e lentezza che è inchiodata l’esistenza di uno scrittore. Vorrei ad esempio raccontare la prima volta che vidi un morto, come mia nonna mi costrinse a baciarlo in fronte e come sulle labbra sentii un gelo che mi tenne sveglio infinite notti. E poi ancora raccontare come mi girava la testa da bambino durante quel ballo stretto tra i seni di una donna più vecchia di vent’anni, come tremarono per giorni le mie mani quando per sbaglio mi puntarono una pistola carica alla tempia, come quella mattina l’alba ci colse d’improvviso in riva al mare e la ragazza piena di lentiggini che non conoscevo mi abbracciò piangendo. E ancora il vestito azzurro che mia madre metteva sempre per scendere in spiaggia, il pazzo che m’inchiodò tutta la notte alla stazione a parlare di Battiato, Sara che mi annunciò di esser diventata donna presentandosi alla mia porta con una svolazzante gonna bianca, il leone d’oro rinvenuto per miracolo tra le macerie d’una ferrovia abbandonata, quell’ennesimo caffè mattutino che improvvisamente prese a sapere di rimpianto perché non avevamo più niente da dirci, il pomeriggio d’inverno che incidemmo una poesia sulla pietra del lungolago, i suoi capelli lunghissimi tra le urla e i fumogeni della manifestazione, i suoi baci famelici che sapevano di morsi, Alexander Platz conquistata di notte in bicicletta, le corse e le scarpe sfondate delle notti dublinesi, i capelli rasati di Alice a terra sul pavimento, le vie lunghe e spietate tra via Gioberti e viale Mazzini, la tristezza naturale di quel quadro storto alla parete che nessuno aveva la forza di raddrizzare. Questo e chissà quant’altro.
Ma per farlo ho bisogno di amare la vita piangendo, di vivere mille vite senza farne parte, di essere felice e disperato, di accumulare capitali di notti insonni lunghe come viaggi all’estero. Sulle autostrade di queste notti incontro milioni di persone. E incontro anche voi, magari con altri nomi, magari intenti a fare tutt’altro. Ma siete voi, anche se a volte non sapete riconoscervi nelle mie storie, siete voi anche se vi camuffo tra gli imbrogli della letteratura. Scrivo. Scrivo perché sono un uomo coi pugni chiusi e i sorrisi rabbiosi. Un uomo che grida piano nel mercato delirante della vita, in mezzo agli occhi, le strade, i portoni, gli smisurati desideri e gli inconcepibili amori. Un uomo che grida piano senza avere quasi mai ragione. Un uomo che fotografa senza decenza o pudore gli occhi degli infelici, le stanze della miseria, i cuori degli sconosciuti, gli odori inebrianti delle donne. Scrivo perché sono un uomo fortunato. Ho avuto e ho una vita meravigliosamente piena di amori e di sbagli, e ho avuto il coraggio di gettar via la vergogna per poterveli raccontare.

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