Smells Like Teen Spirit (breve storia degli anni ’90)

In quei primi anni novanta la storia ci era passata attraverso a velocità supersonica. Il muro di Berlino, le stragi, Sarajevo, la seconda Repubblica e la globalizzazione. Il mondo cambiava e nella nostra ingenuità di ragazzini imberbi sentivamo che da grandi saremmo stati nella merda, perché avremmo trovato un altro mondo, irriconoscibile, troppo diverso da quello che ci avevano raccontato e in cui eravamo cresciuti, un mondo che non avremmo mai capito e che ci avrebbe fatto sentire già vecchi e passati di moda prima ancora di laurearci, di sposarci, un mondo che non ci avrebbe fatto crescere mai.
Per questo, soprattutto per questo, nell’inverno del 1992 prendemmo d’assalto e svaligiammo i negozi di musica per accaparrarci una copia di “Nevermind” dei Nirvana. Quella musica cruda e disperata era la nostra ancora di salvezza, la colonna sonora dei nostri pomeriggi, il nostro dolore incomprensibile tramutato in accordi dissonanti, la nostra rabbia sotto forma di melodie graffianti.
“Smells like Teen Spirit” era, suo malgrado, il nostro inno. La urlavamo come dei pazzi graffiandoci la gola e tirando calci nel vuoto. Bastavano le sole due note d’attacco a farci perdere la testa.
Era il nostro inno, ma ne ignoravamo il motivo. Nessuno di noi, pur ascoltandola di continuo, pur avendola tradotta e ritradotta, aveva ben capito cosa diavolo significassero quei versi.
Poi arrivò il 22 febbraio del 1994 e i Nirvana sbarcarono a Roma per un concerto al Palaghiaccio. Avevamo diciassette, diciotto, vent’anni al massimo, e facemmo le azioni più disperate per racimolare un biglietto. Molti di noi scapparono di casa quel week end, altri inventarono le scuse più assurde. E in qualche modo riuscimmo ad arrivare.
E quando Kurt Cobain, viso d’angelo randagio e la morte già stampata negli occhi, aggrappato al microfono come un martire d’altri tempi offerto al supremo sacrificio attaccò a cantare “Smells like Teen Spirit” fu finalmente tutto chiaro. Nel casino del pogo selvaggio, fra spinte urla delirio e sudore finalmente capii, finalmente capimmo tutti quanti: “ciao…ciao…quanto stai giù? Mi sento stupido e contagioso…un mulatto, un albino, una zanzara…sì, un rifiuto…un rifiuto…”. Parlava di noi, cristo santo, parlava di noi pischelli degli anni novanta che i giornali chiamavano “X Generation“, spazzati via dalla storia prima ancora dell’inizio dello spettacolo. Noi, eternamente condannati a profumare di spirito giovane.

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