Il Boemo e la Puttana

puttanacondIl Boemo aveva trentasei anni e viveva molto più che a caso.

Aveva perso tutto. Il lavoro, l’amore e la casa. Gli restavano taccuini pieni zeppi di poesie non pubblicate, pile di romanzi e racconti inediti in cui credeva solo lui e qualche sparuto amico disperato. Viveva nel disprezzo della sua ex moglie, in un monolocale spoglio che gli aveva prestato suo cugino più per pena che per affetto, passando le giornate a ciondolare qua e là, da un bar all’altro, da una scalinata all’altra, accendendosi d’improvviso per qualcosa, una musica, le gambe perfette fasciate di calze nere di qualche passante occasionale, un ricordo che gli mordeva il cuore e che lui prontamente trasformava in letteratura. Nient’altro. Eppure, nonostante quella vita senza direzione fatta di lenzuola sporche, birra acida, pollo freddo di rosticceria, sigarette e solitudine, il Boemo non riusciva a sentirsi sull’orlo del baratro. Era la scrittura a tenerlo lontano da depressioni senza scampo e ipotesi di suicidio. Perché quella fiumana di pensieri e parole inediti era in fondo l’unica cosa che gli fosse realmente appartenuta in tutta quanta la sua vita, e finché non li perdeva la sua vita continuava ad avere un senso, sconosciuto ai più ma chiarissimo per se stesso.

Poi un giorno il Boemo si innamorò di una fotografia.

Era in un internet point del centro e per puro caso capitò in un sito dove ragazze nude offrivano sesso a pagamento, specificando tariffe e servizi particolari. E certo il Boemo, magari dopo aver letto divertito un paio di annunci, avrebbe chiuso subito quel sito se non gli si fosse parata davanti la foto di Alexys, capelli neri e seni immensi, ventiquattro anni e centocinquanta euro per mezzora. Ma non fu il desiderio sessuale a inchiodarlo incantato davanti a quella foto e a costringerlo ad appuntarsi con mani tremanti il numero telefonico di Alexys. Furono gli occhi della ragazza, quegli occhi neri e primitivi, animati d’una forza primordiale e animalesca di bestia in catene.

Mai stato con una puttana in tutta la sua vita, il Boemo girò tutto il giorno stringendo in mano quel numero maledetto. Cercò di resistere, ma quegli occhi lo martellavano senza ritegno oscurandogli tutti i pensieri. E alla fine cedette.

Appena due squilli e Alexys rispose: “Ciao amore, cosa facciamo?”

Amore. Lo aveva chiamato amore. Ovviamente lo diceva a tutti, ma il Boemo ebbe lo stesso un sussulto allo stomaco. E poi anche la voce della ragazza, come gli occhi, era arcaica e remota, graffiata e inquietante.

“Ciao…volevo…volevo incontrarti…”, riuscì a dire il Boemo col cuore in gola.

“Quando amore? Adesso?”

“Sì…”.

“Tra mezzora amore, via Cavour numero 7, quando sei sotto richiamami, ok?”

“Ok”

“Baci amore, a fra poco”

Tutto molto semplice. Niente rincorse, niente notti insonni, niente giochi di sguardi, niente ipotesi né supposizioni. Due minuti appena di telefonata, un indirizzo. Semplice, semplicissimo. Forse troppo. Il Boemo percorse via Cavour tre o quattro volte, pensando cento volte di andarsene via, scappare lontano e dimenticare Alexys e dimenticare quegli occhi. Ma era troppo tardi ormai. Così prelevò centocinquanta euro dal suo conto in banca moribondo, da quel conto in banca insanguinato che gli lasciava ancora duemila euro prima del nulla cosmico.

Si piantò sotto il numero 7, un qualsiasi palazzo dal portone austero e una ventina di campanelli incolonnati sulla destra, e la chiamò come gli aveva chiesto. Alexys gli disse di spostarsi al numero 5 bis: lì avrebbe trovato la porta aperta, sarebbe dovuto salire all’ultimo piano, girare a destra ed entrare nella porta centrale.

Il Boemo eseguì come uno scolaro diligente il giorno dell’esame, un po’ in trance, un po’ nel panico consapevole. Non si chiese però il motivo di quello spostamento, dal 7 al 5 bis, il motivo della voce di Alexys improvvisamente fredda e meccanica.

Arrivò alla porta già socchiusa. Spinse delicatamente ed entrò.

La casa era uno di quegli appartamenti di passaggio, senz’anima, arredati freddamente, un po’ camera d’albergo, un po’ casa fresca di costruzione. C’era la televisione accesa che mandava videoclip a basso volume. Non gli piaceva niente di quel che lo circondava. Sentì un senso di nausea allo stomaco forte e doloroso, che lo spinse ad andarsene via di corsa. E se ne sarebbe andato senz’altro, se dopo pochi istanti, avvolta in un tubino nero microscopico, non fosse apparsa Alexys, emergendo dal bagno come una Venere rinascimentale.

Camminava su tacchi a spillo leggera come fosse scalza, il tubino nero si spalancava in una scollatura vertiginosa che offriva impunemente quei seni spaventosamente enormi, e imprigionava come una galera insostenibile le altre forme traboccanti. Ma ancora una volta il Boemo fu rapito da quegli occhi, ancor più primordiali e arcaici che in foto. Erano immensi, due pozzi neri e infiniti che risucchiavano e cancellavano ogni cosa.

“Ciao….”, disse lei sorridendo. Ed era un sorriso tranquillo, senza ombre, senza imbarazzi. Tutto in Alexys era così, spietatamente neutro e nudo e facile. Il modo ammiccante in cui gli cingeva le spalle, lo spingeva a sedere sul bordo del letto e gli chiedeva chi era, come si chiamava, cosa faceva nella vita.

“Mi dai il regalino?”, disse lei aprendogli sotto gli occhi il palmo della mano. Lui le diede le tre banconote da cinquanta e il senso di nausea tornò a bussargli prepotentemente allo stomaco. Ma c’erano quei due occhi. Quegli occhi erano l’unica eccezione a tutto il resto, erano una spaventosa e incancellabile scintilla di umanità che guizzava come uno zampillo impazzito di fontana in mezzo a quei gesti meccanici ripetuti chissà quante volte. In quegli occhi si perse. E, se possibile, s’innamorò ancora di più.

“Da dove vieni?”, le chiese il Boemo.

“Mexico”, disse lei con un accento latino che gli fece tremare le gambe. “Ma la mia famiglia è a Barcellona”.

Oltre agli occhi, c’era la voce. Anche quella voce disperatamente azteca raccontava di mondi svaniti nei buchi neri della storia, nelle voragini sanguinanti delle infinite e anonime periferie dell’impero.

Alexys diede un’occhiata distratta all’orologio. Capì che era ora di darsi da fare. Si alzò in piedi e afferrò il Boemo per le mani, sollevandolo. Accennò una piccola danza intorno a lui, e il Boemio capì che il momento del sesso era ormai imminente.

“Sei bellissima”, le disse. Ma glie lo disse col cuore, non riuscendo a nascondere un tremore spaventoso, quasi un accenno di pianto.

Alexys se ne accorse e rimase di sasso. Dieci e più uomini al giorno le dicevano quanto fosse bella, ma quel ragazzo scaruffato e disordinato l’aveva detto come nessuno mai prima d’ora. Ne fu infastidita. Chi era, cosa voleva, perché le sbatteva in faccia quella sincerità violenta in quella danza codificata e innocente di finzione spicciola?

Per non pensarci e per non soffrire, Alexys prese l’iniziativa slacciandogli la camicia e ondeggiandogli davanti. Si sfilò di dosso in due mosse il tubino. Gli afferrò le mani e lo invitò a percorrere le autostrade sterminate dei suoi seni. Poi lo spinse sul letto, finì di spogliarlo e inghiottì il suo sesso. Il Boemo si lasciò guidare senza staccare gli occhi dai suoi, stordito ed emozionato.

Alexys lo scalò e gli salì sopra. Il Boemo le afferrò i fianchi, inarcò il bacino e si tirò su a sedere. Affondò in quella carne come un dolore inevitabile e in un istante la guardò con tutto l’amore che un uomo può provare in un’intera esistenza. Lei lo sentì e perse il controllo. Sparpagliò i suoi capelli e si fece fare quell’amore tragico e inevitabile, fino a sfilargli quella protezione che li teneva ancora distanti e a farlo venire sul suo grembo.

Seguì silenzio. E sospiri. Fortissimi.

Alexys era abituata a parlare dopo il sesso, a traghettare l’evasione dei suoi clienti in chiacchiere amorevoli e disinteressate per lavarli dal senso di colpa e farli andar via con in petto l’orgoglio inutile di sentirsi uomini. Ma stavolta non ci riuscì. Parlò sul serio. Gli parlò di un Messico lontano e infantile che ricordava a stento, di una Barcellona assolata dove nessuno sapeva il lavoro che faceva in Italia, delle sue solitudini infinite e dei soldi investiti con freddezza nelle borse di mezzo mondo.

Vide che erano le otto passate e si accorse di avere fame.

“Che fai stasera?”, gli chiese.

“Niente”, rispose il Boemo.

“Mangiamo insieme?”.

Lo chiese come fosse la cosa più normale del mondo. E lui con altrettanta naturalezza rispose solo “Sì”

Lasciò che si rivestisse. Scese per strada per prendere altri soldi da quel conto in banca sempre più agonizzante. Iniziò a piovere in quella sera tiepida di febbraio, e il Boemo cercò di ripararsi sotto una minuscola tettoia. Poco dopo Alexys uscì dal portone. Aveva un maglione a fantasie astratte accollato, i capelli raccolti e i jeans imprigionati in semplici stivali. E adesso sì. Adesso era davvero bellissima, senza tubino e senza maschera di scena. Adesso era Alexys ed era sua. Era tragica, immacolata e selvaggia come quella pioggia sempre più battente.

Il locale era falsamente sofisticato e loro due, il Boemo e la Puttana, stonavano meravigliosamente tra quei tavoli maniacalmente allineati e sotto quelle luci bianchissime e accecanti. Ordinarono una bistecca al sangue per due, patate arrosto, verdure grigliate e una bottiglia di vino. Erano due innamorati che parlavano molto, smaniosi di conoscersi, e si guardavano ancora di più.

Alexys rivelò di avere una laurea in mineralogia e gli mostrò un anello con una pietra indiana incastonata.

“L’ho fatto io”, disse scoprendo i denti regolari.

Lui le afferrò la mano, percorse con l’indice l’anello e le esplorò delicatamente le falangi. Tacquero. Erano solo batticuore ed emozione. Mai stati così vicini.

Poi il telefono di Alexys suonò.

Il Boemo ritrasse improvvisamente la mano, mentre Alexys si piegò dall’altra parte sparendo nel telefono, di colpo distante e irraggiungibile. Per quanto piegata, lui la sentì dire: “Ciao amore, che facciamo?….sì, via Cavour 7….a dopo amore”.

Il Boemo ebbe un tuffo al cuore, una coltellata improvvisa e senza nome. Alexys riattaccò e riprese a parlare dei suoi anelli. Ma ormai era tutto finito. La cena terminò rapidamente, con la fretta di sparire che divorava entrambi come un cancro. Lui pagò il conto, fuori dal ristorante divisero una sigaretta veloce e poi si abbracciarono senza slanci.

“Devo andare”, disse lei sbrigativa.

“Sì”, fece lui senza guardarla.

“E’ stata una bella serata”, aggiunse Alexys. Ma lo disse senza trasporto, meccanica. Come si dice a un cliente. Come può dirlo una puttana.

Il Boemo la salutò con la mano e sparì nella pioggia. Camminò a caso per una decina di minuti, poi si infilò in un locale qualsiasi e ordinò una birra. Gli pulsavano le tempie e gli faceva male il cuore. Immaginò Alexys risalire in casa rapida come una gatta, infilarsi il tubino e aspettare il nuovo cliente. E scopare. Scopare. Scopare.

Vagò ancora a lungo nella notte, con dentro un dolore potente che portava i contorni del volto di Alexys. A mezzanotte non seppe resistere e la chiamò di nuovo.

“Ciao amore, che facciamo?”

Stava per riattaccare senza dirle altro. Ma poi disse “Alexys, sono io…”

Lei si schiarì la voce. Era infastidita e le faceva piacere. Anche lei avrebbe voluto riattaccare, cambiare numero, tornare a Barcellona in un solo istante. “Cosa è successo?”, riuscì a chiedergli alla fine.

Il Boemo sospirò, poi disse: “Vieni a casa mia…”.

Alexys tremò. Cercò di mantenere freddezza. “Io lavoro…fino alle due non posso”

“Vieni alle due, ti aspetto”

Le diede l’indirizzo e poi riattaccò senza darle il tempo di rispondere. Spense il telefono e corse a casa. Provò a leggere, provò a scrivere, provò a fare qualsiasi cosa. Ma riuscì soltanto a buttarsi sul divano, a girarsi e a rigirarsi come una serpe indemoniata. Guardò l’orologio. Erano le due e un quarto. Alexys non sarebbe mai venuta, e lui s’addormentò in un sonno pieno d’incubi e di denti digrignati.

Fu un sonno brevissimo. Lo svegliò il suono insistente del campanello. La radiosveglia antidiluviana segnava le due e quarantasette. Dentro il citofono soffiò la voce azteca e tremante di Alexys. Lei salì le scale col solito passo leggero. Gli fu davanti col viso che brillava di pioggia e agitazione. Si era cambiata di nuovo. Adesso indossava un maglione bianco e voluminoso, quasi a nascondere quei seni ingombranti e impertinenti. I suoi occhi animaleschi brillavano nella penombra del monolocale sudicio e rovinoso. E quegli occhi affamati di bestialità ataviche lo baciarono con foga e rabbia. Era il loro primo bacio e non ebbe mai fine.

Si presero in una lotta incessante come due selvaggi sconsiderati e inconsapevoli. Morirono l’uno nel corpo dell’altra, e quando entrambi deposero sfiniti ed esanimi le armi di quella danza furiosa e guerresca, lei si abbandonò sul suo petto mordicchiandolo e arruffandogli i peli radi e regolari.

“Ti amo”, disse lui con voce rauca e strozzata.

Lei lo strinse fortissimo. Si avvinghiò come una leonessa ferita e con un filo di voce sussurrò nel buio “Anch’io…”

Poi si addormentarono. E fu solo silenzio.

La mattina dopo il Boemio si svegliò molto tardi. Il letto era vuoto, Alexys se n’era andata. Sul lenzuolo c’era una chiazza ancora umida. Si alzò. Stava a malapena sulle gambe. Sul comodino c’era un biglietto e una busta chiusa.

Sul biglietto, in un italiano incerto, c’era scritto:

“Dentro la littera c’è la veridad. Si tu me ami, ti prego, non cercarme. Si tu me ami, ti prego, non aprire mai. Adios mi vida”.

Il Boemo prese in mano la busta. Se la rigirò a lungo tra le mani. La accarezzò e la lisciò fino a consumarla. Poi accese il telefono e compose il numero di Alexys.

“Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile”.

Posò la busta. Si fece una doccia fredda. Passò tutta la giornata fuori casa in uno stato di calma insopportabile.

Rientrò a tarda sera. Rifece il numero.

“Il numero da lei chiamato è inesistente”.

Prese di nuovo la lettera, la accarezzò ancora. Poi aprì un cassetto, la mise delicatamente dentro e lo chiuse a chiave. Spalancò la finestra e gettò la chiave per strada.

Si versò un bicchiere di birra di discount. Si mise a sedere. Diede un gran sorso e gettò il capo all’indietro.

“Adios mi vida”, sussurrò.

Riccardo Lestini, 2011 (INEDITO)

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