Cosa serve per scrivere

Virginia Woolf diceva che “per scrivere ci vogliono soldi e una stanza tutta per sé”. Io non ho avuto né i soldi né la stanza. E forse non ce li avrò mai. Non importa, non importa davvero, perché ho avuto altro che mi ha permesso, e mi permette ancora, di scrivere.
Prima di tutto ho avuto il lago Trasimeno, Passignano e la collina. Ho avuto quei colori in piena faccia come milioni di schiaffi gentili, ho avuto i silenzi degli scogli, la solitudine delle salite, l’allegria della polvere, la tragedia delle strade sterrate.
Ho avuto Pasquale Guerra, che in un sorriso di barba e occhiali a goccia diede forma al mio cuore di quattordicenne e lo indirizzò alla poesia.
Ho avuto Sandro e Samuele, che nel freddo e nel sudore dei nostri pomeriggi d’infanzia e adolescenza ascoltavano in silenzio le storie che scrivevo in mezzo ai rottami della ferrovia, e ci credevano davvero, che io fossi uno scrittore.
Ho avuto una macchina da scrivere, il regalo più bello della mia adolescenza, su cui picchiettare le dita con rabbia e con amore.
Ho avuto incubi potenti e lacrime inconsolabili, e una sera d’estate col sole ingrossato dal tramonto, quando ho scoperto l’euforia di imprigionare la mia sofferenza dentro fogli di carta.
Ho avuto mia nonna, scrittrice senza penna e stupenda tessitrice di trame e avventure.
Ho avuto una mattina gelida e piena di sole, due giorni ai miei diciott’anni, e il poeta Franco Loi che leggendo i miei primi versi acerbi mi fece una carezza e sorridendo mi disse: è crudele e splendido, essere poeti.
Ho avuto le poesie di Rimbaud e Pasolini, le canzoni di De André e i film di Charlie Chaplin.
Ho avuto Firenze e la luce dei lungarni, ho avuto un giardino pieno di fiori dove sporcare milioni di fogli a quadretti. Ho avuto le stradicciole di San Frediano e i canti dei bottegai, le bestemmie in toscano dei vecchi e osterie e vini rossi che macchiano il bicchiere.
Ho avuto l’urlo delle periferie, mondi sconosciuti gonfi di odori e disperazioni, abbracci di gente senza nome e senza documenti.
Ho avuto notti incendiate di malinconia, albe piangenti e tramonti morbidi come la tristezza.
Ho avuto la polvere dei teatri, ho avuto Lapo, Silvio e Alessandra con cui percorrere i palcoscenici di mezzo mondo, camerini e applausi da dividere e condividere. Ho avuto occhi sconosciuti da rubare e immaginare.
Ho avuto la morte, che troppe volte è venuta a trovarmi e a svelarmi il suo volto.
Ho avuto treni dove morire e rinascere, viaggi senza destinazione, anni randagi e poverissimi, alberghi e ostelli con le lenzuola ingiallite, autostop su strade consumate dal sole.
Ho avuto le borgate e Campo de’ Fiori a Roma, Alexander Platz e la Karl Marx Allée a Berlino, il Pont Neuf e la Rive Gauche a Parigi, ‘O Connel Street e il Liffey a Dublino, Waterloo Bridge e i Kensinghton Garden a Londra, il Malecòn e Santa Clara a Cuba, il Raggio Verde e le Ramblas a Barcellona, Santa Lucia e la via dei librai a Napoli, via del Campo e Boccadasse a Genova, il mercato e il deserto a Marrakesh, la Plaka e l’Acropoli ad Atene, il Danubio e la torre a Vienna.
Ho avuto autobus, persone, chiasso, voci, gente, grida, strade, pensieri, incontri, addii, promesse, avventure, silenzi.
Ho avuto un cineclub minuscolo e pieno di fumo, una libreria a tre piani che profuma di caffè.
Ho avuto sbronze a milioni e stomaco in frantumi, depressioni e scoramenti. Ho avuto milioni di persone che non hanno capito.
Ho avuto una spiaggia e il mare Adriatico, un’altalena e una piadineria.
Ho avuto oscurità lunghissime e senza parole, ho avuto penne rigide come macigni, ho avuto mesi e anni senza riuscire a scrivere una sola riga.
Ho avuto un incontro una mattina d’inverno, tra una spiaggia e una pozzanghera, uno sguardo che mi ha dato la vita e una sposa per sempre.

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