Smart Working (o della grande truffa dell’anglicismo)

Mi viene sempre in mente il maestro Guccini, che prima di “Statale 17”, in un fortunatissimo live immortalato su disco, disse:

“Sulla strada di Kerouac era molto bello letto in italiano con i nomi americani: “Quella sera partimmo John, Dean ed io sulla vecchia Pontiac del ’55 del padre di Dean e facemmo tutta una tirata da Omaha a Tucson”; porco cane! E poi lo traduci in italiano e in italiano dici “Quella sera partimmo sulla vecchia Fiat 1100 del babbo di Giuseppe e facemmo tutta una tirata da Piumazzo a Sant’Anna Pelago”. Non è la stessa cosa, gli americani ci fregano con la lingua.”

Lontano anni luce da ogni smania di purismo linguistico (per dire, i francesi che nel tennis si ostinano a chiamare “jeu decisif” il tie break li ritengo grotteschi), convinto come pochi della natura non solo dinamica, ma contaminata e contaminante di ogni lingua, penso tuttavia che almeno il 90% degli anglicismi utilizzati abitualmente nella nostra comunicazione quotidiana non abbia nulla – nulla – a che vedere con la naturale evoluzione del linguaggio.
Che sia anzi, il 90% di cui sopra, pura moda imposta forzatamente, con la più tipica “violenza mascherata di leggerezza” di ogni tendenza di massa.
E che di questo 90%, ben più della metà nasconda una fregatura.
O il volerci far essere a tutti i costi superficiali, il trionfo della forma sul contenuto che da sempre è una delle armi preferite dalla società dei consumi per i propri subdoli intenti.
Oppure un indorare la pillola opportunamente calcolato per nascondere la realtà o renderla – anche solo onomatopeicamente – più sopportabile.

È il caso, quest’ultimo, di quello SMART WORKING così tanto in voga in questi tempi così cupi e incerti.
Vorrebbe dire “lavoro agile”, ovvero – seguendo la definizione con cui lo disciplina l’ordinamento italiano- un lavoro subordinato senza vincoli precisi di orario e luogo, reso possibile e messo in atto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici e informatici.
Già tra la sua dicitura italofona e la definizione legislativa, c’è un’evidente scollatura. Ovvero, se “lavoro agile” presuppone (tra l’altro indiscutibilmente, visto che la semantica non è un’opinione) un lavoro più leggero, meno gravoso e di conseguenza più auspicabile, la sua (singolarissima, a questo punto) interpretazione legislativa, va in tutt’altra direzione. Vale a dire che non prevedendo nessun dove e nessun quando specifico, potenzialmente prevede ogni dove e ogni quando, con un’estensione, sempre potenzialmente, infinita.
C’è tuttavia da dire, per correttezza e completezza di informazione, che la stessa definizione del nostro ordinamento specifica come il “lavoro agile” sia subordinato a uno specifico accordo tra le parti (ovvero tra il datore e il lavoratore). Ma anche questa “tutela” è pura apparenza: in un tempo in cui la logica della flessibilità ha portato al precariato perenne e di massa, con il lavoro tornato a essere considerato non più un diritto ma una “gentile concessione” del potere, subordinare tanto il luogo fisico quanto – soprattutto – il monte ore di lavoro a un accordo di fatto privato, non disciplinato da alcun contratto nazionale, può avere (e avrà) effetti devastanti.

Con il proliferare della prassi dettata dall’emergenza sanitaria, con il suo ingresso nella quotidianità (in tre mesi la percentuale di lavoratori “agili” è più che triplicata, dal 14% al 49%), il “lavoro agile” si è subito trasformato in “Smart Working”.
Nessuno slang nato spontaneamente, nessun naturale sincretismo linguistico, ma la più classica operazione – come si ricordava in precedenza – di fumo negli occhi tramite “addolcimento onomatopeico”.

Si dice Smart Working, si usa questo inglese di etichetta a simbolo di un indefinito progresso, di un’indefinita (e impalpabile) modernità, di un futuro inesistente ma a cui occorre credere per forza, salvo essere tacciati di disfattismo, di gentaglia cui non sta a cuore il bene del paese.
Si dice Smart Working, se ne cantano e decantano in maniera astratta i benefici e i vantaggi cui si deve obbligatoriamente applaudire.

Si dice Smart Working, due paroline dolci al suono e fighissime all’uso, ma che in realtà nasconde il baratro.
Il baratro che annulla la necessaria e vitale separazione tra gli spazi del lavoro e quelli della vita privata, che trasforma i nostri salotti da luoghi dell’intimità a sede di riunioni, che lascia i nostri figli soli pur in nostra presenza, che mortifica la nostra professionalità costringendoci a lavorare tra un soffritto e un ragù, che annulla il diritto al riposo, che cancella l’alternanza lavoro-tempo libero, che ci rende perennemente abili, arruolabili e reperibili, che sotto un sostanziale ricatto ci costringe a una mole incalcolabile di lavoro sommerso che non verrà mai retribuito.
Che certifica e ha reso normale il lavoro perenne, h/24 e 7 giorni su 7.
Che ha distrutto, in poco più di due mesi, decenni di lotte in nome dei diritti.

Si chiama Smart Working, ma è solo un tragico e inconcepibile fordismo domestico.

L’emergenza finirà, prima o poi. E ci libereremo dall’incubo del contagio e torneremo ad abbracciarci.
Ma credo che molte cose non cambieranno più, che non ci libereremo affatto da ciò che – a partire dallo Smart Working- è diventato drammaticamente normale sotto l’ombrello dell’emergenza, quando per non passare da irresponsabili siamo stati persuasi ad accettare qualsiasi cosa, anche la più assurda.

No, non andrà affatto tutto bene.
E il futuro è tutt’altro che roseo.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *