La storia degli infiltrati

Sono dieci anni che parliamo di Black Bloc. Dai tempi del G8 di Genova, e anche da prima per il ristretto gruppo degli addetti ai lavori. Questa sigla, che di fatto vorrebbe raggruppare e definire una galassia sfuggente, composita e sostanzialmente indefinibile, ricompare puntualmente a ogni incidente di piazza, a ogni vetrina infranta, a ogni auto incendiata, a ogni manifestazione degenerata in guerriglia urbana. Una sigla che ricompare accompagnata da sommarie spiegazioni, da frasi senza troppo contenuto, da considerazioni sbrigative e superficiali. Vengono sommariamente definiti, dai mezzi d’informazione, “anarchici”, “anarco-insurrezionalisti”, “frange violente”, “nichilisti”, “gruppi nati in Germania a metà degli ’80 e diffusisi in tutta Europa”. Etichette che dicono tutto e niente. Soprattutto niente. Soprattutto non spiegano nulla a chi avrebbe il bisogno, e il sacrosanto diritto, di capire.
Ieri a Roma, come in quasi tutte le altre occasioni degli anni passati, si è riproposto lo schema ormai arcinoto delle “due piazze”: da una parte i manifestanti pacifici, rumorosi, colorati, arrabbiati ma nonviolenti, e dall’altra la massa nera, i cattivi, violenti, casseurs, devastatori. Sono due approcci talmente diversi, due modalità così distanti che i distinguo sono praticamente obbligatori. Così evidenti da costringere anche le parti politiche più avverse alle ragioni dei manifestanti a distinguere tra manifestanti che pacificamente e legittimamente dimostravano il loro dissenso e manifestanti violenti. Una distinzione che, nonostante l’evidenza, a Genova per esempio non fu fatta. L’impressione è che ieri il tiro delle violenze e dei bersagli si sia alzato notevolmente: non più solo banche e altri simboli del capitalismo, ma anche case, addirittura una chiesa.
Tuttavia non voglio parlare di Roma nello specifico. Non c’ero, e a disposizione ho soltanto le immagini reperite sul web e in televisione. È proprio dei black bloc (chiamiamoli anche noi così, per pure ragioni di comodo) in quanto tali che vorrei parlare. I distinguo di cui parlavo prima non solo sono ovvi, ma giusti e necessari. Bene che li facciano i mezzi d’informazione, bene che li facciano le parti politiche e bene che li facciano i manifestanti stessi. Bene che chi crede nel dissenso duro ma civile, risoluto ma pacifico, senza compromessi ma nonviolento, prenda giustamente le distanze dall’espressione cieca della violenza e della devastazione.
Però io, giottino e no global della prima ora, vent’anni di piazza alle spalle, a tutti i miei compagni di lotta e di strada, stasera vorrei dire: facciamola finita con la storia degli infiltrati. Facciamola finita con la storia che i casseurs violenti e devastatori siano tutti infiltrati della polizia, dei carabinieri, della finanza e del governo. Non solo è una teoria irreale e fuorviante, ma è anche comoda e rassicurante.
Cerco di spiegarmi meglio. L’idea che chi scenda in piazza non possa essere violento, che chi condivide le strade delle nostre manifestazioni non possa ingaggiare guerriglie urbane, che qualsiasi deviazione debba necessariamente provenire dall’esterno, è poco più d’una rassicurante carezza. A sostenere un’idea simile, si rischia di comportarsi come quelli che puntano il dito contro tutto e tutti e rifiutano d’ammettere di avere anche loro problemi in famiglia. È uno schema troppo semplice: noi siamo i manifestanti buoni, pacifici, giusti, e tutto ciò che devia dalle nostre intenzioni è fatto apposta per metterci in difficoltà, manovrato dall’alto per stroncarci e screditarci. Davvero troppo semplice, mentre la realtà è difficile e complicata.
Gli infiltrati esistono dai tempi della guerra dei cento anni. È proprio del lavoro delle forze dell’ordine dislocare e infiltrare agenti in ambienti caldi per raccogliere informazioni e a volte, perché no, anche per provocare. Le forze dell’ordine lo fanno nel giro del traffico illegale di droga, negli stadi e anche nelle manifestazioni. Non c’è manifestazioni senza alcuni agenti infiltrati nel corteo. Alcuni appunto, non cinquecento. Credere che le devastazioni siano opera di un intero esercito di infiltrati è assurdo, quasi fantascientifico.
I cosiddetti black bloc sono altro, qualcosa di molto meno oscuro e occulto e, per questo, molto più inquietante. I black bloc, i casseurs, i devastatori, sono manifestanti autentici. Sfido chiunque a negarlo. Chiunque almeno che, come me, ha alle spalle anni e anni di piazza. Li conosciamo, alcuni per nome e per cognome. Li abbiamo visti in faccia. Sono la parte degenerata, violenta e incontrollabile della nostra ideologia di lotta e protesta. Una degenerazione che ha origine nella nostra stessa rabbia, nella nostra stessa smania di cambiare il mondo. Così come la psicosi mentale è la degenerazione ultima di manie e fissazioni che ognuno di noi porta dentro. L’esplosione inquietante del nostro lato oscuro.
Per frenarli, perché vanno frenati, è a mio avviso indispensabile trattarli per quello che sono: un’ideologia generata. Fin quando li considereremo qualcosa che non ci riguarda, marziani provenienti dall’improbabile galassia dell’infiltrazione, non solo non risolveremo mai il problema, ma perderemo noi stessi di significato. Ci lamentiamo spesso che davanti a simili devastazioni la polizia resti immobile, non intervenga, e che invece intervenga spesso per colpire e ferire e ammazzare i manifestanti pacifici. Ci lamentiamo, certamente a ragione. Ma di cosa ci stupiamo? La nostra è una polizia povera, misera, sia a livello di mezzi sia a livello di preparazione. Come possiamo stupirci se non siano in grado di fermare e addirittura isolare i violenti? E, polizia a parte, com’è possibile che simili frange, spesso e volentieri, prendano sistematicamente il controllo e il sopravvento di interi tratti di cortei? Dobbiamo anche in questo caso esaminare molto più approfonditamente noi stessi. Spesso noi in piazza ci arriviamo senza preparazione, con servizi d’ordine ridicoli, scarsa attenzione e facilonerie preoccupanti. Una manifestazione non è una gita fuoriporta. Una manifestazione è un atto politico, e come tale implica un atto gigantesco di responsabilità. Siamo noi i primi a dover difendere la nostra manifestazione.
Parafrasando quanto giustamente scrisse il mio amico Carlo Gubitosa nel suo illuminante saggio “Genova nome per nome”, i black bloc sono portatori di un’ideologia. Malata, sbagliata, degenerata quanto si vuole, ma pur sempre un’ideologia. E con questa ideologia dovremo confrontarci prima o poi, altrimenti difficilmente cambierà qualcosa, difficilmente riusciremo a salvare le nostre piazze.

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