Il processo a Maria Antonietta

La testa di Luigi Capeto, ovvero l’ex Luigi XVI, ultimo re della Francia di antico regime, rotolò ai piedi del boia di Stato Sanson e davanti a una folla oceanica, la mattina del 21 gennaio 1793, a Parigi, in place de la Revolution (attuale palce de la Concorde).

La consorte, Maria Antonia d’Asburgo-Lorena, nota semplicemente come Maria Antonietta, lo seguì, nella medesima piazza e sotto la medesima ghigliottina, il 16 ottobre dello stesso anno, appena nove mesi più tardi.

Un intervallo di tempo normalmente minimo e brevissimo che però, nel contesto particolare e irripetibile della Rivoluzione Francese, fatto di continui e incontrollabili rovesciamenti di fronte, accelerazioni e stravolgimenti quotidiani, equivale a un’eternità. E che, soprattutto, rende i due avvenimenti lontani anni luce e diversissimi tra loro.

A testimoniare tale lontananza e tale diversità, basta raccontare e confrontare, in una specie di “montaggio alternato e parallelo”, proprio come fosse un film, il cerimoniale, il clima, la “drammaturgia” delle due esecuzioni.

Il 21 gennaio 1793 non è un giorno come gli altri: ogni cittadino francese, e in particolare ogni cittadino parigino, sa che la Storia, proprio quella con la esse maiuscola, sta per passargli sotto gli occhi in tutta la sua potenza. Nell’aria fatta tersa e pulita dal gelo pungente di uno degli inverni più freddi del secolo corre perciò un’eccitazione incontenibile, simile a una gigantesca e continua scossa elettrica che afferra tutti, popolino borghesia clero e nobiltà, e tutti percorre lungo la schiena. Ma non si traduce in urla, schiamazzi, corse, disordine. Tutt’altro. Si materializza in un silenzio, un ordine e una compostezza irreali, un silenzio come da queste parti – Francia, Parigi, tempo della Rivoluzione – non si vedeva più da tempo. È il silenzio paralizzato dell’attesa di qualcosa di enorme, l’ordine dell’imminenza del punto di non ritorno. L’immobilità imposta da una domanda, un dubbio che, benché l’inevitabile stia per accadere, serpeggia ancora nell’animo di ognuno: è veramente possibile uccidere un Re? Nonostante la Convenzione Nazionale abbia emesso la sentenza senza alcuna possibilità di appello, nonostante la lama immacolata della ghigliottina – strumento supremo di giustizia di cui tutti conoscono la funzione ma con cui ancora nessuno ha familiarizzato – sia lì ad attendere il condannato, ancora si stenta a crederlo. Ancora si pensa – si teme o magari si spera – che qualcosa accada all’ultimo momento e mandi all’aria ogni cosa, che magari Danton ci ripensi proprio un attimo prima e accolga la mozione di rinvio di Brissot e dei girondini. Oppure che ci sia un piano dei realisti, dei filomonarchici o di spie straniere infiltrate, per trarre in salvo il Capeto e strapparlo alla morte a un passo dal patibolo. Idea non proprio campata in aria, quest’ultima: la Storia accerterà come quella mattina di gennaio c’erano almeno tre piani, distinti e indipendenti l’uno dall’altro, per salvare l’ex sovrano.

Tutti falliti, per motivi diversi.

Nove mesi più tardi invece, è proprio un giorno come tutti gli altri: la Storia, sempre quella con la esse maiuscola, si è già compiuta, non ha più l’aspetto di un evento immane ma quello di un fiume in piena, inarrestabile, che scorre quotidianamente sotto i piedi di ogni cittadino e con cui, ogni cittadino, ha completa familiarità. Quella Storia che nove mesi prima era necessità di fare la Rivoluzione, oggi è la Rivoluzione che procede ogni giorno, la Rivoluzione che non deve più avvenire ma deve consolidarsi e conservarsi. E per conservarsi deve convivere con la necessità quotidiana di eliminare i propri nemici. Tutti quanti, nessuno escluso. Perciò che venga giustiziata l’ex regina Maria Antonietta non solo è inevitabile, ma assolutamente normale, scontato. Nessuno si stupisce, qualcuno nemmeno se ne accorge. Il freddo è ancora di là da venire, in questa mattina di mezzo autunno: l’aria è stagnante, ha l’odore dolciastro del sangue. La ghigliottina, che nove mesi prima era oggetto misterioso e inquietante, oggi è arredo consueto e familiare delle giornate di ogni parigino al pari di un qualsiasi banco dei mercati di quartiere. Agli angoli di place de la Revolution gli ambulanti vendono ghigliottine in miniatura che fungono da trinciasigari. Non c’è cittadino che non ne possegga una. I bambini, che ancora non fumano, ci giocano decapitando le bambole. Che ci siano piani o complotti per salvare l’ex sovrana è fuori discussione. Qualcuno ci ha provato, ma settimane, mesi fa.

Secoli fa, ormai.

Il corteo funebre che accompagna il re decaduto muove dalla Tour du Temple dove il condannato ha trascorso la sua ultima notte. Lo accompagna un sacerdote che lo ha confessato e con cui recita i salmi fino al patibolo. La carrozza, chiusa, percorre lentamente il breve tragitto che porta a place de la Revolution passando tra due ali di folla, in un silenzio composto, assoluto, spettrale, che taglia l’aria in un crescendo di tensione insostenibile. Qualche bisbiglio, qualche commento sussurrato, ma chi prova ad alzare la voce viene prontamente zittito. In place de la Revolution il silenzio è ancora più assoluto. Sul patibolo Luigi Capeto, barcollando di terrore e per le mani già legate, trova la forza di parlare. E grida, alla folla immobile e silenziosa: “Muoio innocente… perdono i miei nemici e prego affinché il mio sangue…”. Forse aggiunge “non debba mai ricadere sulla Francia”, ma il rullo assordante dei tamburi si alza altissimo e rende incomprensibili le sue ultime parole.

Il boia Sanson aziona la ghigliottina. Un attimo e tutto è finito. Un altro attimo, interminabile, di silenzio, in cui tutti si chiedono “è accaduto veramente?”. Un altro attimo, interminabile, di silenzio e smarrimento, in cui tutti – compresi quelli che non desideravano altro che la morte dell’odiato sovrano, forse soprattutto loro – si sentono un po’ orfani. Poi la realizzazione: è accaduto veramente, il re è morto. Segue urlo collettivo, catartico e liberatorio: VIVA LA REPUBBLICA!

Spari di cannone. La Rivoluzione trionfa. È un giorno di festa, questo 21 gennaio.

Nove mesi più tardi non c’è alcun sacerdote ad accompagnare Maria Antonietta. È in pieno atto la scristianizzazione della Francia, e il conforto della preghiera per i condannati, benché credenti, non è contemplato. Confessione a parte, non c’è alcuna solennità in questa mattina di mezzo autunno. Nessuna carrozza chiusa, ma un carretto di legno scoperto scortato da quattro soldati della Guardia Nazionale. Sopra il carretto, vestita solo d’una vestaglia bianca, Maria Antonietta, trentotto anni e i capelli già completamente incanutiti, lo sguardo vitreo e assente, malata, in gran parte già morta. Tutt’attorno, una folla scomposta, feroce e urlante accompagna il passaggio della carretta con grida, sputi e insulti d’ogni sorta. Puttana, puttana austriaca, muori, crepa. E via dicendo. In place de la Revolution, se possibile, il fracasso della folla è ancora più assordante, talmente forte da coprire anche il rullo dei tamburi. Non c’è tempo, né modo, di alcuna parola di commiato, di nessun ultimo discorso da consegnare alla storia. Probabilmente, Maria Antonietta non ha nemmeno la forza di parlare. Le sue ultime parole sono un semplice “Pardon” sussurrato al boia per aver perso l’equilibrio e avergli pestato i piedi appena salita sul patibolo. Nient’altro. La lama viene lasciata cadere sul collo dell’ex regina e poi tutto è finito. Nuove urla scomposte. Forse qualche canto, qualche danza. Nient’altro da segnalare.

Proprio un giorno come gli altri, questo 16 ottobre.

Diverso, completamente diverso fu anche, forse soprattutto, il percorso che condusse alle due regali esecuzioni.

La condanna di Luigi XVI arrivò al termine di un lungo, drammatico e lacerante dibattito che più volte trovò in disaccordo i deputati dell’Assemblea Nazionale. La possibilità di condannare a morte o meno il re decaduto fu di fatto argomento costantemente all’ordine del giorno sin dalla sua deposizione, a seguito dell’insurrezione della Comune l’11 agosto del 1792, e soprattutto dalla proclamazione ufficiale della Repubblica, avvenuta il 21 settembre dello stesso anno.

Tuttavia, l’apertura di un dibattito istituzionale sulla sua sorte, fu costantemente rimandato, soprattutto per il fatto che, in quei primi mesi di vita del governo repubblicano, i cosiddetti “montagnardi” (ovvero i deputati giacobini più radicali, tra cui in particolare Robespierre, Marat e Saint-Just) che più di tutti premevano per l’esecuzione, erano in minoranza, mentre ancora godevano di numeri consistenti i “girondini” (liberali e moderati, guidati da Brissot), che sulla questione contavano sull’alleanza della “pianura” (quelli che oggi chiameremmo il “centro”).

Viste però le alterne vicende della politica estera, con la Francia costantemente minacciata dalle potenze straniere e con la possibilità concreta di un’invasione austriaca e prussiana che avrebbe rimesso il Capeto sul trono, nel dicembre del 1792 affrontare ufficialmente il problema si rese inevitabile.

Fu un vero e proprio “processo di Stato”. Non si svolse in tribunale ma nell’aula del parlamento delle Tuileries, davanti ai deputati dell’Assemblea che avrebbero avuto il compito di decidere, tramite votazione singola, il destino dell’ex sovrano. Ci fu unanimità soltanto nel decretare la colpevolezza dell’imputato circa i reati contestati (in particolare “alto tradimento” nei confronti della Francia), nonostante la forza e il coraggio con cui seppe difendersi Luigi Capeto, fin lì famoso per i suoi continui tentennamenti e per la sua debolezza politica, stupì l’intera Assemblea.

Le divisioni sorsero in merito alla pena di morte: 366 deputati favorevoli contro 355 contrari. Una maggioranza minima, aggravata dal fatto che i girondini, i quali avevano votato in blocco a favore, presentarono una mozione per sospendere e rinviare l’esecuzione. Lo stesso Danton, allora a capo del Comitato di Salute Pubblica e vero leader di quella prima fase repubblicana, pare tentennò, e non poco, circa la pena capitale. Alla fine non solo si espresse favorevolmente ma – pare su pressioni di Robespierre e Marat – respinse la richiesta di sospensione della pena.

La presa di posizione di Danton si rivelò decisiva e nel terzo e ultimo scrutinio la forbice si allargò con 387 voti favorevoli e 310 contrari.

Per Maria Antonietta le cose si svolsero in tutt’altro scenario.

L’inaspettata e clamorosa rivolta popolare, filomonarchica e antirivoluzionaria, della regione della Vandea, unita alla sempre viva minaccia di invasione straniera e, soprattutto, all’assassinio del leader giacobino e idolo popolare Jean-Paul Marat a opera di una fanatica cattolica e realista, impressero alla Rivoluzione una incontrollabile accelerazione in senso radicale.

Danton, accusato di corruzione dai girondini, si era precauzionalmente dimesso da ogni carica pubblica e temporaneamente ritirato a vita privata in campagna. Pur appartenendo alla “montagna” egli era, da sempre, il “pontiere” per eccellenza, il tramite tra l’ala radicale e quella moderata della Convenzione. In sua assenza, il radicalismo giacobino della montagna si fece sempre più accesso, avvicinandosi sempre più all’estremismo più intransigente dei sanculotti e della fazione degli “arrabbiati” guidati da Hébert. Soprattutto, moltiplicarono la paura di nemici “interni” e la necessità di eliminarli il prima possibile per garantire la sopravvivenza della Repubblica.

Nasceva quindi quel particolare periodo della Repubblica che gli storici avrebbero ribattezzato “Terrore”, caratterizzato dall’ascesa di Robespierre e Saint-Just, dalla conquista della maggioranza in Convenzione, della messa in minoranza dei girondini moderati e, soprattutto, dal sistematico ricorso a processi sommari e a esecuzioni di massa per i nemici della Rivoluzione, veri o presunti (bastava una semplice denuncia per finire sotto giudizio del Tribunale Rivoluzionario voluto da Robespierre).

La condanna e l’esecuzione di Maria Antonietta perciò, a differenza di quelle del consorte, furono figlie del Terrore. Sostanzialmente dimenticata nella Torre del Tempio per qualche mese, la figura di Maria Antonietta, e la necessità di condannarla, tornarono di colpo in cima ai pensieri del governo rivoluzionario in estate, più o meno – non a caso – in concomitanza con l’assassinio di Marat.

Per Maria Antonietta non vi fu alcun processo di Stato né alcun dibattito istituzionale.

Non furono i deputati dell’Assemblea a giudicarla, ma il Tribunale Rivoluzionario, in un processo durato appena due giorni (lo stesso Tribunale, con la medesima celerità, pochi giorni dopo l’ex regina avrebbe mandato sulla ghigliottina, come traditori, tutti i principali esponenti girondini, a partire dal leader Brissot, privando così la Convenzione di tutta l’ala più moderata).

Le accuse che le vennero mosse furono sostanzialmente tre: esaurimento del tesoro nazionale (da ben prima dello scoppio della Rivoluzione Maria Antonietta era indicata come la causa principale della crisi economica della Francia, e per questo ribattezzata “madame deficit”), intrattenimento di rapporti segreti con il nemico (ovviamente l’Austria in particolare, anche questa accusa pregressa alle vicende rivoluzionarie) e cospirazione contro la sicurezza nazionale. In pratica, allo stesso modo del marito, anche Maria Antonietta veniva processata per “alto tradimento”.

Tuttavia, al di là del mutato contesto e dell’impressionante rapidità con cui si giunse alla sentenza, furono proprio i contenuti più profondi delle accuse a essere tutt’altra storia rispetto a quella che aveva condotto alla ghigliottina l’ex Luigi XVI.

Possiamo dire, in estrema sintesi, che Luigi XVI, fino all’ultimo in sede processuale, per quanto odiato, fu trattato con tutto il riserbo e il rispetto dovuto a un ex capo di Stato. E che, pur nel particolare contesto di una Rivoluzione in pieno corso, ebbe riconosciute tutte le basilari garanzie giudiziarie.

Per quanto riguarda Maria Antonietta invece, sorge il sospetto che tale rispetto, e tali garanzie, sarebbero probabilmente venuti meno anche senza il clima infuocato del Terrore.

Il suo processo fu quindi, anzitutto, Terrore o meno, un violento regolamento di conti per un odio pluridecennale nei confronti di una regina straniera mai veramente amata né minimamente accettata dai francesi. E non fu “solo” un processo contro una regina decaduta.

Ma andiamo con ordine.

Le specifiche accuse mosse nei suoi confronti, ovviamente, non potevano essere né provate né dimostrate. In massima parte si trattava, allo stesso modo di quanto contestato al marito, di reati, diciamo così, “politici” ed “ideologici” che però, ieri come oggi, calati in un contesto di Rivoluzione e di caduta di un Regime, costituiscono materia sufficiente per un arresto, una condanna e un’esecuzione.

Maria Antonietta effettivamente aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per provare a salvare, fino all’ultimo, la Monarchia. Più del consorte, celebre per i suoi tentennamenti, le sue indecisioni e i suoi repentini e continui cambi d’opinione, essa non riuscì mai ad accettare non solo, com’era ovvio, la repubblica, ma anche l’idea di una monarchia costituzionale, come effettivamente fu la Francia nel primo periodo rivoluzionario. Cresciuta ed educata in seno all’assolutismo, la monarchia assoluta era per lei l’unica forma di governo concepibile. In sostanza, nella guerra tra assolutismo e rivoluzione, Maria Antonietta giocò le sue carte. E ne uscì totalmente sconfitta.

Oltre questo, c’erano tuttavia colpe più oggettive e concrete. In quest’ottica, dallo scoppio della Rivoluzione in poi, Maria Antonietta si era più volte resa protagonista di un pericoloso doppio gioco che, se scoperto – come puntualmente avvenne, avrebbe definitivamente aggravato la posizione della famiglia reale: da un lato, agli occhi dell’Assemblea (e del popolo) finse di accettare la Costituzione e tutto ciò che comportava (in primis la fine dell’assolutismo e la divisione dei poteri), dall’altro non si rassegnò mai all’idea di una controrivoluzione che potesse restaurare l’assolutismo.

In questo senso non smise mai di intrattenere rapporti con gli aristocratici emigrati e le potenze straniere (la “sua” Austria prima di tutto). Inoltre, fu lei a consentire che un banchetto a Versailles del settembre 1789 degenerasse in una sorta di festa di dileggio verso gli ideali rivoluzionari (evento che provocò la celebre marcia delle donne su Versailles dell’ottobre dello stesso anno e, soprattutto, il trasferimento della corte a Parigi). E fu sempre lei a provare ripetutamente a convincere Luigi XVI a lasciare il paese da fuggiasco per poi ritornarvi alla testa di un esercito controrivoluzionario, fino a riuscirci nel 1791, con quella grottesca “fuga di Varenne” (un tentativo di fuga dal paese organizzato dal nobile svedese De Fersen – probabilmente amante della regina – penosamente scoperto e fermato a pochi chilometri dal confine) che fu la definitiva pietra tombale sulla monarchia.

Poteva bastare. Gli elementi erano ben più che sufficienti per condannare la “vedova Capeto” nel solco della piena legalità della logica guerresca e rivoluzionaria.

Tuttavia, a tutto questo, si volle aggiungere ben altro.

Un regolamento di conti, si diceva prima. Da sempre, praticamente dal momento in cui, improvvisamente e nemmeno ventenne, divenne regina di Francia, Maria Antonietta fu il capro espiatorio di ogni problema del paese, il bersaglio di ogni polemica, la causa di ogni male, centro continuo e ripetuto di ogni scandalo, vero o presunto. Indicata dall’opinione pubblica, tanto dal popolo minuto quanto dall’antica nobiltà “di spada”, come donna frivola, assetata di lusso e colossale dissipatrice, a lei furono soprattutto addossate le responsabilità del vertiginoso debito pubblico dello Stato. Più dell’oneroso appoggio francese alla guerra d’indipendenza americana, più della gravosissima guerra dei sette anni contro l’Inghilterra e più dei secolari privilegi di cui aristocrazia e clero godevano alle spalle di popolo e borghesia, agli occhi dell’opinione pubblica i motivi della spaventosa crisi economica in cui versava la Francia erano i capricci, i lussi sfrenati, le spese per abiti, cappelli e acconciature, la passione per il gioco d’azzardo di Maria Antonietta.

In realtà la donna non fu né una regnante particolarmente peggiore di altre né, nella cattiva gestione dello Stato, più responsabile del consorte. Essa, come si diceva, fu un’irriducibile assolutista al pari di chi l’aveva preceduta ma che, a differenza dei predecessori, ebbe la sventura di trovarsi in un contesto storico che l’avrebbe travolta senza scampo.

Sradicata appena quattordicenne dalla sua amata Austria, scaraventata in una corte ossessionata dai cerimoniali, dalle etichette e dalle formalità come nessun’altra, senza il conforto di alcuna presenza amica (lei, che a Vienna era cresciuta circondata di amore e affetto), sostanzialmente ignorata da un marito che attese anni prima di sfiorarla e consumare il matrimonio, trattata con sufficienza dalle antiche famiglie nobiliari, malconsigliata da amicizie sbagliate (i funesti e terribili Polignac su tutti), sin dai primi anni di regno visse una vita assolutamente infelice: il lusso, i capricci e le frivolezze furono il primo e immediato conforto a un malessere e a una solitudine continui.

Questo tuttavia la rese il bersaglio perfetto di ogni polemica: una regina straniera mai “francesizzata”, frivola, incapace e sprecona.

Il processo che la mandò alla ghigliottina così, oltre alla fuga di Varenne e alle trame controrivoluzionarie, volle giudicarla anche, forse soprattutto, di questo.

Non a caso nel discorso di apertura non vi furono accenni particolari agli episodi riguardanti gli anni della Rivoluzione, ma fu offerto un ritratto a trecentosessanta gradi della ex regina che la presentava, appunto dal giorno del suo arrivo nel paese, come la causa di ogni male della Francia.

Infine, soprattutto, le accuse di immoralità e di condotta libertina nella sfera sessuale.

Anche in questo senso, sin dalla sua salita al trono, fioccarono in tutta la Francia voci e dicerie di ogni sorta, libelli pornografici che dipingevano la regina come dedita abitualmente a pratiche orgiastiche e perverse, all’amore saffico e con un numero incalcolabile di amanti.

Tutte voci completamente infondate. Tolto l’ufficiale svedese De Fersen (ma anche in questo caso non vi è alcuna certezza di una effettiva relazione che andasse oltre l’intima amicizia e confidenza), Maria Antonietta non ebbe alcun amante né alcuna condotta perversa o scandalosa.

Ma se per gli scandali economici il Tribunale Rivoluzionario si limitò a riprendere e a sintetizzare ciò che l’opinione pubblica pensava da decenni, per quelli sessuali andò molto oltre ogni possibile immaginazione, arrivando a fare cose molto oltre l’abominevole.

Prima di tutto, due mesi prima del processo, a Maria Antonietta – che, in ogni caso, per tutta la vita fu madre affettuosa ed esemplare – fu fatta l’inutile crudeltà di separarla dal figlio Luigi Carlo (di appena dieci anni ma, per i realisti, legittimo erede al trono col nome di Luigi XVII), che fu portato via dalla torre del Tempio e dato in affidamento a un ciabattino analfabeta che aveva il compito di plagiarlo.

Quindi, a processo in corso, Hébert costrinse il bambino a firmare una dichiarazione in cui ammetteva di essere stato iniziato a pratiche masturbatorie e sessuali dalla madre e dalla zia.

Maria Antonietta si ribellò con forza a un’accusa tanto assurda, appellandosi a tutte le madri presenti al processo. Le donne, almeno in quel momento, furono con lei e del documento di Hébert non se ne parlò più.

Robespierre, venuto a conoscenza della cosa, maledisse con tutte le forze Hébert per aver concesso all’odiata austriaca l’ultimo trionfo pubblico. E per aver dato ai realisti un appoggio clamoroso per creare l’immagine di una martire.

Aveva assolutamente ragione, Robespierre. In quel processo farsa, in quella totale parodia giuridica (in due giorni sfilarono 41 testimoni, tutti prodotti dall’accusa), l’unica a uscirne a testa alta fu proprio Maria Antonietta, che seppe difendersi con forza, non mentendo né cadendo mai in contraddizione.

Un Tribunale che rinunciò a processare un’avversaria politica e si risolse in un becero concentrato di delazioni, crudeltà gratuite e maschilismo.

Un processo che non resistette alla tentazione di giudicare non la regina, ma la donna, che proprio in quanto donna è, a prescindere, cagione d’ogni sventura, responsabile ultima delle colpe dei maschi che la circondano e, non da ultimo, dissoluta e perversa, fautrice d’ogni atrocità.

Davvero la pagina più nera di una Rivoluzione nata per traghettare l’umanità fuori dal buio del dispotismo e portarla nella luce dei diritti.

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