Robespierre: l’uguaglianza e il terrore

Se fosse la scena di un film il direttore della fotografia, per rappresentarla, sceglierebbe senz’altro una luce rarefatta e inquietante, una di quelle luci che il cinema è solito usare per quelle dimensioni oniriche sospese tra realtà e sogno, dove non si sa, né si deve sapere, se quello che vediamo sta accadendo veramente oppure no.
Questo perché, anche se stiamo parlando di un avvenimento storico di portata e importanza gigantesche, come siano andate esattamente le cose non possiamo saperlo. Le cronache giunte sino a noi sfociano spesso in un’epica esagerata e non completamente attendibile, altrettanto spesso si contraddicono fornendoci versioni assai diverse.

Al patibolo viene condotto un uomo – forse a bordo di un carretto di legno, forse addirittura trascinato a piedi, sorretto da due soldati della Guardia Nazionale – con la mascella fracassata: forse è stato un colpo di pistola sparato ore prima da uno dei suoi moltissimi nemnici politici, forse è stato lui stesso a sparare, un colpo accidentale partito nella concitazione del momento oppure una precisa volontà di togliersi la vita. Qualcuno racconta che al momento di togliergli la benda abbia emesso grida bestiali di dolore, secondo altri è rimasto in un silenzio agghiacciante e frastornato. È moribondo, ma addirittura c’è chi sostiene che sia arrivato alla ghigliottina già morto e che sia stato giustiziato solo per necessità di mostrarlo al popolo. Alcuni dicono che tutt’attorno c’era un silenzio composto e irreali, ma altri raccontano di canti di giubilo per la morte del nuovo tiranno, di giovani parigine che gli lanciavano addosso fiori bianchi in segno di scherno. Altri ancora parlano di una totale indifferenza.

Di sicuro c’è solo che siamo a Parigi, in place de la Revolution (attuale place de la Concorde), il 28 luglio 1794 (anno II, giorno 10 del mese di Termidoro secondo il calendario rivoluzionario).
E che l’uomo con la mascella spaccata è il leader indiscusso del partito giacobino e uno dei simboli più alti della Rivoluzione Francese. Ovvero Maximilien de Robespierre.

Da circa un anno, da quando cioè il brutale assassinio del giacobino Jean Paul Marat (uno dei rivoluzionari più amati dal popolo), pugnalato nella vasca da bagno dalla fanatica cattolica Charlotte Corday, ha scatenato la grande paura verso i nemici interni alla rivoluzione dando inizio a quella fase della rivoluzione nota come “Terrore”, è il leader riconosciuto e indiscusso della Francia repubblicana e rivoluzionaria. Questo nonostante Robespierre, di fatto, non ricopra ufficialmente alcuna carica che possa essere in qualche modo ricondotta al comando della nazione. Egli è soltanto il membro più illustre del potentissimo Comitato di Salute Pubblica. Nemmeno all’interno della sua parte politica – la “montagna”, ovvero i giacobini più radicali, così detti dal fatto che i suoi esponenti occupavano gli scranni più alti nell’aula della Convenzione – ha un preciso mandato di comando. E nemmeno, durante il Terrore, quella parte politica avrà mai la maggioranza. Quella sarà sempre detenuta dalla “pianura”, ovvero quei deputati che oggi chiameremmo “centristi”. Solo che la montagna, grazie al sostegno delle masse popolari parigine, durante tutto il Terrore riuscirà ad esercitare una enorme pressione su tutta la Convenzione, fino a imporsi sistematicamente in ogni decisione.
E Robespierre, in virtù del suo credito inesauribile presso il popolo, ma soprattutto in virtù del suo carisma, del suo radicalismo intransigente e della sua fama di “incorruttibile”, sarà, tanto allora quanto ancora oggi, indicato come il “capo” della Francia, il “triumviro” della repubblica assieme ai suoi fedelissimi Couthon e Saint-Just.
Nel momento in cui viene condotto alla ghigliottina si è appena ripresentato sulla scena pubblica dopo oltre un mese di assenza calcolata. Un’assenza che doveva servire, secondo Robespierre, a neutralizzare le crescenti e feroci opposizioni alla sua condotta politica e alla sua persona, culminate con una serie di attentati, tutti sventati. Un clamoroso errore di valutazione: l’opposizione non solo non si è spenta naturalmente come sperava, ma si è compattata, riunendo sotto la volontà di eliminarlo una coalizione assolutamente trasversale ed eterogenea, che va dagli stessi giacobini fino ai monarchici.

Tutti hanno interesse, se pur per diverse ragioni, a far fuori Robespierre. In primis proprio i suoi stessi compagni politici, ovvero i giacobini della montagna. Responsabili quanto lui – se non più di lui – delle esecuzioni sommarie e degli eccessi del Terrore, compresa la stanchezza popolare per quel clima di sospetto e violenza continua, sommata a una guerra contro le potenze europee sempre più drammatica, fiutata da ultimo un’aria generale di reazione, la strategia dei compagni di partito di Robespierre è chiarissima: addossare l’intera responsabilità del Terrore a lui, riacquistare verginità politica e riproporsi come moderati assicurandosi ruoli di comando nella Francia futura.

Per questo a ordire il colpo di stato che attende Robespierre al suo ritorno sono proprio i giacobini, con in testa Paul Barras, futuro leader del governo del Direttorio che si insedierà dopo la morte di Robespierre.
Dietro, nella cabina di regia del colpo di stato di quel 28 luglio, aleggiano ovviamente le grandi “eminenze grigie” della rivoluzione, ovvero Sieyés e, soprattutto, Talleyrand, due personaggi senza alcuna bandiera se non quella del potere che, in meno di dieci anni, seppero riciclarsi continuamente: sostenitori di La Fayette e della monarchia costituzionale nel 1789, nemici di La Fayette e sostenitori di Danton e della Comune Repubblicana nel 1792, nemici di Danton e sostenitori di Robespierre e del Terrore nel 1793, nemici di Robespierre e sostenitori di Barras nel 1794 e infine nemici di Barras e artefici del colpo di stato militare di Napoleone.
Al di là, come già sottolineato, delle difficoltà di ricostruirne con esattezza i passaggi più concitati, il colpo di stato del 28 luglio, passato alla storia come congiura di termidoro, riesce. Non solo nel suo scopo concreto, ovvero mandare Robespierre e i suoi fedelissimi alla ghigliottina, ma anche nel suo obiettivo più ideale e politico, vale a dire addossare a Robespierre l’intera responsabilità dei mesi del Terrore. Riesce a tal punto che ancora oggi, nell’immaginario collettivo (ma anche in una certa storiografia frettolosa) Robespierre è semplicemente colui che trasformò la repubblica in tirannide e la lotta rivoluzionaria in un bagno di sangue.

Ma chi era veramente Maximilien de Robespierre? Uno spietato tiranno, un folle dittatore, un irriducibile idealista, un difensore delle classi più umili o cos’altro? Di sicuro la sua è una delle figure più complesse della storia contemporanea. Complesse, importanti e controverse.

Certamente, come già scritto in precedenza, al di là dell’abile manovra di Barras e dei suoi, Robespierre non fu l’artefice unico del Terrore. Egli ne fu direttamente responsabile, lo sostenne con forza e convinzione come unica arma per salvare la Francia dai suoi nemici interni, ma fu una responsabilità, lo ripetiamo, non singola ma collettiva: Robespierre non aveva alcun titolo per poter imporre, da solo, simili misure eccezionali. E anche il suo ruolo nel Comitato di Salute Pubblica, per quanto prestigioso e influente, era subordinato al volere della maggioranza, col suo parere che valeva un voto esattamente come quello degli altri. Perciò ogni singola decisione presa dalla Convenzione e dal Comitato nei drammatici mesi del Terrore fu decisione collettiva, frutto della volontà di un’intera fazione politica – la montagna appunto – e, particolare non trascurabile, sotto la spinta decisiva dei sanculotti e delle masse popolari parigine. Di tutto questo Robespierre non fu il capo, ma l’esponente più carismatico e, soprattutto, il più amato dal popolo.

Il popolo lo amò così tanto e in maniera così appassionata certo per il suo radicalismo (fu di fatto l’unico a interpretare alla lettera uno dei principi chiave della rivoluzione, vale a dire l’uguaglianza), ma prima ancora per l’assoluta onestà e trasparenza. L’appellativo di “incorruttibile” non fu certo casuale: Robespierre fu l’unico grande esponente della Rivoluzione a non cercare né ricchezze per se stesso, né tornaconti personali né. E a non essere coinvolto in scandali di corruzione. Bene ribadirlo: l’unico. Mirabeau al momento della sua morte era coinvolto in numerose truffe fiscali, La Fayette, assieme a Bailly era stato cofirmatario di un falso documento in cui si denunciava un rapimento del Re mai avvenuto, Danton incassò centinaia di tangenti e Barras fece della corruzione il tratto distintivo del suo governo.

L’incorruttibilità di Robespierre, la sua incrollabile coerenza, furono così estreme e rare da destare tanto ammirazione quanto sospetto. Disse di lui Danton: “egli è veramente pericoloso, poiché non fa né dice mai niente solo per se stesso”.
Ma paradossalmente, l’estrema coerenza fu anche il suo più grande difetto e il suo più grande limite. Infatti, più che tradursi in un’effettiva azione politica rivoluzionaria, essa finì per essere sinonimo di rigidità e astrattezza. In tutta la sua rapidissima, breve e straordinariamente intensa carriera, egli inseguì continuamente un’idea assolutamente impossibile e ben più che utopistica di “repubblica perfetta” che lo allontanò sempre più dalla realtà delle cose. In quei frangenti così mutevoli e particolari della rivoluzione, di un nuovo stato interamente da farsi, occorreva quel minimo di flessibilità e adattabilità necessario che per l’inflessibile Robespierre fu sempre inaccettabile.
Egli fu di fatto l’incarnazione di quella Costituzione approvata dalla Convenzione nel 1793: sulla carta, e idealmente, la Costituzione più democratica ed egalitaria mai concepita dal processo rivoluzionario, ma mai applicabile nei fatti per le continue emergenze di guerra.
Nella sua visione, l’adesione e il perseguimento del Terrore, fu quindi l’unico modo possibile di inseguire il raggiungimento di quello stato perfetto che riteneva essere l’unico possibile, l’unica conclusione veramente vittoriosa per la rivoluzione.
In questo estremo idealismo, in tale astrattezza che finì per coincidere con l’appoggio alle brutalità e alle violenze sistematiche del Terrore, Robespierre fu comunque anche – e soprattutto – il leader rivoluzionario più vicino alle istanze e ai bisogni del popolo minuto. Tuttavia, anche questa sua vicinanza al popolo finì per essere male interpretata. Ancora oggi c’è chi vede nel giacobinismo di Robespierre un antenato del marxismo e del comunismo. Lettura completamente errata: non solo nella visione politica di Robespierre manca completamente quel l’idea di lotta di classe che è fondamento imprescindibile del marxismo, ma Robespierre, pur rappresentandone l’ala più radicale, si muove completamente nel solco di una rivoluzione, quella francese appunto, che è completamente borghese. In quanto tale, Robespierre mai, ad esempio, mette in discussione la proprietà privata o la libera impresa. Il suo fu quindi un egalitarismo democratico e illuminato, basato sulla parità di diritti e non su quella di possedimenti. E di conseguenza, se nel suo pensiero vogliamo a tutti i costi vedere l’antenato di qualcosa, esso va cercato, e trovato, nel suffragio universale e nelle odierne democrazie rappresentative.

Robespierre cadde vittima di un complotto e anche di se stesso: non seppe vedere al di là del Terrore né cogliere la stanchezza del popolo per quel regime così violento in cui trovò l’unica strada per difendere la repubblica.
Il problema è che la libertà era un concetto giovane, giovanissimo. Talmente giovane che anche chi la perseguiva con tutte le sue forze non sapeva bene cosa fosse e per difenderlo non trovava altro sistema che il suo contrario, ovvero la repressione.
Per questo con la sua morte termina non solo il periodo più drammatico, ma anche quello più autentico e viscerale della rivoluzione. Una specie di paradosso che però, oggi come oggi, ci pare l’unica conclusione certa di qualsiasi dibattito sulla figura di Robespierre.

#iNostriAntenati
#storieRiccardoLestini

***Con questo post, dopo mesi, termina la rubrica settimanale I NOSTRI ANTENATI dedicata alla storia. È stata seguita molto, ma molto di più di ogni nostra più rosea previsione, perciò grazie, grazie infinite a tutte dal profondo del cuore. Torneremo in autunno. Nel frattempo per leggere o ri-leggere tutte le pubblicazioni cliccate qui: riccardolestini.it/i-nostri-antenati

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