Rebecca

Rebecca, una di quelle ragazze da non rincontrare mai e ricordare in eterno.
Da ragazza Rebecca aveva una smania gigantesca di crescere, troppo bisogno di diventare donna e di liquidare la sua giovinezza come una sciocca sala d’attesa. Mi ricordo che il primo giorno di scuola aveva braccia nude e sorrisi sicuri e distanti. Chiedeva e domandava senza vergogna, i professori non sembravano provocare in lei alcun sconquasso emotivo degno di nota. A tutti lanciava occhiate brevi e prive d’interesse, come a voler tracciare un solco incolmabile tra noi, impantanati fino al collo nelle angosce inconsolabili dell’adolescenza, e lei, che sapeva pianificare, calcolare, tenere tutto in ordine. Lei che sapeva sempre dove andare. Facevamo il liceo classico, ma lei era insofferente verso qualsiasi materia umanistica. Troppi dubbi, troppi perché, troppi relativismi. Rebecca aveva bisogno di incasellare e sommare, ottenere risultati certi e indiscutibili.
Quel primo giorno di scuola mi innamorai di lei perdutamente e senza soluzione. E non per quella sua sicurezza spaventosa, non per la sua voce ferma e senza increspature, non per il suo sguardo alto e fiero, ma per i suoi capelli lunghi e castani e profumati che più o meno alla terza ora scesero come pioggia sulla mia grammatica greca. Rebecca non mi avrebbe mai baciato e lo sapevo, lo avevo capito nell’istante esatto del colpo di fulmine, primo giorno di scuola, più o meno terza ora, grammatica greca invasa dalla flotta impertinente dei suoi capelli. Ma andava quasi bene così: la mia timidezza e il mio senso d’inadeguatezza a tutto ciò che riguardasse la vita si sentivano rassicurati, quasi protetti nel guscio inespugnabile d’un amore senza speranza.

Rebecca, una di quelle ragazze da non rincontrare mai e ricordare in eterno.
A scuola Rebecca era capace di cazziarmi ferocemente qualsiasi cosa facessi. Per come mi vestivo, per quel che dicevo, per uno scherzo a suo dire fuori luogo, per la musica che ascoltavo, per quel che mangiavo, per gli amici che frequentavo. In gita poi era sempre una tragedia. La nostra idea di divertimento corrispondeva a una notte in bianco, a generare nei corridoi dell’albergo una mole spropositata di casino, a seminare panico nelle stanze, a urlare quanto più possibile. Rebecca invece, che si chiudeva a chiave in camera e a mezzanotte già dormiva, il giorno dopo puntualmente mi toglieva la parola. Per uno o due mesi. Eppure, nonostante sfuriate e cazziatoni, tolto il ristrettissimo gruppo di amiche intime, io ero l’unica eccezione ammessa in quella sua vita trasformata in equazione matematica. Il perché all’epoca, neanche quindici anni, mi era completamente oscuro. Sarei dovuto crescere molto prima di capire che quei rimproveri violenti, quegli insulti che mi vomitava addosso con una rabbia fuori dal comune, erano il suo modo speciale di amarmi senza riserve.
I fidanzati che aveva erano prove tecniche di futuro, giovani uomini con poca infanzia addosso che rispondevano a canoni tutti suoi di sicurezza, stabilità, prospettiva e presentabilità. Di amore, farfalle in pancia e tutto il resto neanche l’ombra. Amava me appunto, ma non possedevo nemmeno un lontano riflesso di quelle caratteristiche.

Rebecca, una di quelle ragazze da non rincontrare mai e ricordare in eterno.
Quando dopo un anno di silenzio mi dichiarai, tragicamente in penombra nell’anticorridoio di un alberghetto squallido di terz’ordine durante l’ennesima gita, Rebecca mi regalò la più impressionante scarica d’insulti che io abbia mai ricevuto in tutta la mia vita. Non c’era alcuna speranza dentro di me, volevo solo liberarmi stomaco e coscienza, ma quella rabbia furiosa mi sconvolse. Non potevo capirlo allora, ma Rebecca si era arrabbiata così tanto perché sbattendole in faccia i miei sentimenti avevo fatto vacillare le fondamenta delle sue certezze. Così da quel giorno parte delle sue energie furono impiegate a tenermi ostinatamente alla larga con ogni mezzo possibile. Almeno fino all’ultimo anno e fino all’ultima gita quando qualcosa, chissà cosa, dentro di lei si sciolse di schianto. E aveva addosso una giacchetta rossa stretta stretta e pantaloncini e calze nere da donna su stivaletti leggeri e improvvisamente decise di essere almeno quella sera ragazza e diciassettenne e scolò una birra tutta d’un fiato e mi abbracciò per ore premendo il suo seno immenso sul mio cuore e mescolando i suoi capelli alle mie dita. E mi batteva e ci batteva il cuore, nella sua stanzetta in penombra in piedi e guancia contro guancia. Ma io no, non la baciai, aspettai che si addormentasse per vegliarla tutta la notte carezzandole la fronte. No, non la baciai, perché avevo diciassette anni ed ero un eroe puro e immacolato, e un eroe sa sempre cosa fare, e io eroe sapevo che quel bacio dovevo solo sognarlo, rimpiangerlo in eterno e a volte scordare di non averlo mai dato.

Rebecca, una di quelle ragazze da non rincontrare mai e ricordare in eterno.
Finito il liceo non la vidi più. Si sposò subito dopo la laurea con l’ultima sua prova tecnica di futuro, con il ragazzo che già andava in casa sua ai tempi dell’ultima notte dell’ultima gita. Matrimonio e confetti e tris di primi e una casa cointestata nel paese dov’erano nati e cresciuti e la ditta della famiglia di lui da mandare avanti e un figlio che non voleva proprio arrivare. Ogni sera Rebecca tornava a casa stanca dal lavoro e dando da mangiare ai pesci rossi telefonava a sua cognata per commentare le ultime ricette pubblicate da un sito internet di cucina. Il sabato a volte andavano a cena fuori con altre coppie e spesso le capitava di perdere il filo di quei discorsi che mescolavano bollette e shopping, calcio e macchine, progetti per le vacanze e programmi televisivi. Poi una mattina si svegliò all’alba sentendosi soffocare. Pensò a un brutto sogno ma col passare delle ore quella sensazione di soffocamento non accennava a passare. La sera stessa mi telefonò. Erano più di dieci anni che non la vedevo e non la sentivo.

Rebecca, una di quelle ragazze da non rincontrare mai e ricordare in eterno.
Così ci rincontrammo, superstiti e imbarazzati, nel parcheggio di una stazioncina di provincia. Ma io non ero più un eroe, solo un uomo con troppi viaggi e traslochi addosso, solo un uomo ancora impigliato in una vita sconclusionata. E un uomo non sa mai cosa fare, e io uomo presi il volto di Rebecca tra le mani e la baciai e spogliai il suo corpo e la presi per giorni e settimane e mesi fino a star male. Nelle macchine dai vetri appannati in cui consumavamo scampoli di notte, nella penombra incasinata di casa mia tra sigarette spente male e quintali di libri accatastati, Rebecca visse l’entusiasmo della sua prima follia, l’energia incontenibile del suo primo colpo di testa. Trovò la giovinezza che aveva sempre rifiutato di vivere. Ma non eravamo più giovani e non eravamo più ragazzi. Adesso c’erano case e famiglie e adulteri con cui fare i conti. All’epoca non baciarla fu un atto gigantesco di amore eterno che non avrei mai dovuto tradire. Ma l’eroe che ero stato era morto, e adesso potevo al massimo essere un uomo innamorato e neppure per sempre. Ci dicemmo addio dopo una sua lettera piena di dubbi e lacrime, dopo cento mie parole ridicole e un orgasmo rabbioso, nella tristezza d’un tardo autunno dai colori stinti e sfiniti. Lei tornò alla sua casa profumata di caffè e faccende domestiche, alle sue ricette e ai suoi sabati di cene organizzate con cura. Mentre io tornai alla mia solitudine sconclusionata e senza trama.

Rebecca, una di quelle ragazze da non rincontrare mai e ricordare in eterno.

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