Il Nobel a Bob Dylan (considerazioni a freddo)

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IL NOBEL A BOB DYLAN (considerazioni a freddo)

La storia, che pare aver interessato davvero tutti (tranne ovviamente il diretto interessato che, in assoluta coerenza con se stesso e la sua carriera, ancora si deve degnare di rispondere all’Accademia di Svezia) scatenando discussioni pressoché ovunque, al di là delle polemiche pretestuose, spesso viziate dal puro gusto di dire qualcosa-qualsiasi-cosa, se non addirittura da pregiudizi politici (nonostante la politica intesa come ‘fazione’ sia quanto di più lontano da Dylan sia come uomo che come artista), pone comunque alcuni interrogativi che, se non decisivi per le sorti dell’umanità, paiono quanto meno interessanti.
Soprattutto, interrogativi cui, almeno noi “operatori del settore” – intellettuali, critici, docenti di lettere e via dicendo -, abbiamo il dovere di rispondere. O quanto meno provare a farlo.

Uno su tutti: che cos’è la letteratura?
Nell’immediato, istinto e istantaneità logica, suggerirebbero di rispondere che la letteratura è “scrittura”.
Risposta, se non proprio sbagliata, quanto meno parziale e incompleta.
La letteratura è infatti “scrittura” solo in parte. Per definirla in modo corretto occorrerebbe dire che è, in maniera ben più ampia e soprattutto ben più complessa, “parola”, nell’accezione più ampia e variegata del termine.

Una definizione – la letteratura come “parola” – che non nasce da un’opinione personale, ma dalla storia stessa della letteratura, dal modo in cui, da secoli e da decenni, viene recepita, diffusa, insegnata e imparata.

Proprio perché la letteratura è “parola” e non soltanto “scrittura”, da secoli, nel pieno contesto della letteratura rientrano, oltre alle contaminazioni tra i generi, il teatro (almeno il teatro “drammatico”, cioè quello che al gesto e al mimo accompagna un testo, la parola appunto) e la musica (almeno quella che alla melodia sposa un testo).

Perché allora il Nobel a Dylan scandalizza così tanto?
Lasciando stare la polemica di chi lo definisce “assurdo” perché ritiene “pessimi” i testi di Dylan (tutti i premi, Nobel compreso, sono frutto di una scelta di un gruppo di persone che, per forza di cose, non possono rappresentare il volere e il piacere di tutti, generando sempre e per sempre esclusioni illustri e celebrazioni azzardate a seconda dei punti di vista), è invece interessante la posizione di chi, operatori del settore compresi, considera sbagliato a prescindere conferire il Nobel a un cantautore, in quanto i testi di canzoni non rientrerebbero nella letteratura e, semmai, occorrerebbe istituire un Nobel a parte. Discussioni molto simili a quelle che, a suo tempo, accompagnarono il Nobel a Dario Fo: non sembrava opportuno, a molti, premiare un teatrante per gli stessi motivi di cui sopra.

Potremmo anche farlo, separare in maniera detta e definitiva musica, canzoni e teatro drammatico, e potremmo anche decretare che la letteratura non è, o meglio non è più, “parola”, ma è soltanto “scrittura” nel significato più restrittivo del termine.
Potremmo anche farlo, ma sarebbe, almeno a mio avviso, semplicemente assurdo.
Dovremmo infatti smettere di considerare l’Iliade e l’Odissea (opere come tutta l’epica classica concepite assieme all’accompagnamento musicale, come un matrimonio indissolubile tra melodia e testo, dove il ruolo della scrittura “pura” è molto più marginale di quanto si possa pensare, visto che tutti i poemi in questioni furono creati e diffusi oralmente attraverso la parola cantata, musicata e recitata.) testi letterari, di considerarle l’origine della letteratura occidentale, toglierle dai programmi di medie e superiori, di letteratura italiana e di letteratura geca.
E dovremmo smettere di considerare letteratura anche i testi di Sofocle, Eschilo, Euripide (autori non solo teatrali, ma le cui opere prevedono interi passi fondamentali scritti appositamente per essere musicati e cantati). Così come dovremmo smettere di considerare letteratura Shakespeare (decretato l’autore più influente e importante della letteratura di tutto il millennio, giudizio su cui nessuno all’epoca ebbe da ridire), Goldoni e Pirandello (autori da sempre molto più che fondamentali) nei programmi di letteratura italiana. E dovremmo togliere dai programmi anche il “Cantico delle creature” di Francesco d’Assisi (visto che anch’esso è stato concepito assieme alla musica), smettere di considerarlo il primo testo della letteratura italiana di cui si abbia notizia. Eliminare il Cantico, l’intera poesia provenzale dell’amor cortese da cui ha origine il nostro Stil Novo, le laudi di Iacopone da Todi e chissà quant’altro.

Detto questo, sorge il sospetto che il motivo, quello vero, di tanto polemizzare sia da cercare altrove.
Ovvero nell’idea, assurda ma reale e durissima a morire, che vuole la letteratura appannaggio esclusivo di una nicchia, un’élite. Che vuole l’aggettivo letterario in contrapposizione con popolare.
Che crede sia non solo giusto, ma addirittura auspicabile (e i perché ve li lasciamo immaginare) che la letteratura non abbia mai (più) una diffusione a largo raggio.
Un’idea molto più che allucinante se si pensa che la letteratura, che è appunto parola, linguaggio, comunicazione, avrebbe (condizionale d’obbligo) come principale funzione quella di arrivare dovunque e a chiunque.
Un’idea, una inconcepibile volontà di conservazione, condivisa e sostenuta in primis da molti scrittori. Ad esempio pare di scorgerla, in maniera molto metaforica, nelle parole indignate con cui Baricco ha contestato il Nobel a Dylan.
Per nulla metaforico, e assolutamente chiaro e diretto, è stato invece il poeta Valerio Magrelli, il quale ha detto apertamente che “i testi di Dylan non sono poesia… la poesia, quella vera, vende 100 copie e alle presentazioni e alle letture ci vanno in tre… ai concerti di Dylan ci vanno in 100mila”.
Il discrimine tra poesia e non poesia sarebbe quindi una questione di quantità: meno persone la leggono, tanto più si tratta di poesia.

Per questo quando il Nobel lo vince la canadese Munro o la bielorussa Alexievich, due grandissime scrittrici sconosciute e che dopo il premio hanno continuato a essere ignote ai più, sta bene a tutti, perché è rassicurante per tutti, addetti ai lavori e non, una letteratura per pochi.
Se a vincerlo è Bob Dylan, la cosa scandalizza non tanto perché il vincitore è un menestrello, ma perché il vincitore è conosciuto da tutti e amato da moltissimi, perché ha scritto, da oltre cinquant’anni a questa parte, testi che hanno raggiunto ogni angolo del pianeta, in cui hanno sognato, riso, pianto e si sono riconosciute almeno quattro generazioni, che hanno saputo essere popolari senza perdere un briciolo di qualità, che hanno saputo essere d’autore senza essere a uso e consumo esclusivo di un’élite di iniziati.
Hanno cioè raggiunto molti degli scopi per cui l’uomo, millenni fa, sentì il bisogno di inventare la poesia e la letteratura.
Hanno cioè fatto ciò che la letteratura dovrebbe fare sempre e che, però, purtroppo, da molto tempo non è più (e forse non vuole nemmeno) in grado di fare.

Per questo noi non solo non ci scandalizziamo se il Nobel va a Dylan ma, oltre a essere felicissimi, tiriamo un sospiro di sollievo sentendo una salutare boccata d’ossigeno e diciamo: la letteratura riesce ancora, ogni tanto, a svolgere la sua funzione più importante.

#resistenzeRiccardoLestini