Pasolini 40 anni fa, “come un sacco de monnezza”

IL DELITTO PASOLINI: UN CASO ANCORA APERTO. A quarant’anni esatti dal crimine efferato che mise a tacere per sempre il grande intellettuale, regna ancora il buio su come andarono realmente le cose

Idroscalo di Ostia, alba del 2 novembre 1975.
Una donna, residente in una delle baracche della zona, come ogni mattina si appresta a rimuovere sporcizia e detriti dalla zona antistante alla sua abitazione. Ma a pochi metri da quello che inizialmente ritiene essere un sacco de monnezza, si accorge che non si tratta del solito cumulo di spazzatura, ma del cadavere di un uomo orrendamente straziato.
Un uomo di nome Pier Paolo Pasolini.

Oggi, 2 novembre 2015, esattamente quarant’anni dopo, le indagini giudiziarie su quel brutale assassinio non sono state in grado di giungere a una verità. Non tanto condivisibile da tutti, quanto oggettivamente accettabile. Troppi, a tutt’oggi, omissioni, sospetti di insabbiamento, misteri e punti oscuri che ancora aleggiano.
L’impressione, a fronte di indagini che a distanza di anni si riaprono regolarmente per poi puntualmente chiudersi senza risultati concreti, è che il delitto Pasolini, al pari di tanti altri sconcertanti “misteri” della più recente storia d’Italia, rimarrà irrisolto. E che, soprattutto, non vi sia alcuna reale intenzione di fare luce su una vicenda tanto vergognosa quanto inquietante.
Anche se ormai per la giustizia siamo fuori tempo massimo, il nostro dovere resta quello di non rassegnarci, non tacere, raccontare ancora e ancora quel delitto, raccontarne le (pochissime) certezze e i (moltissimi) dubbi. E continuare a pretendere almeno la verità, una verità che – facili dietrologie a parte – da qualche parte deve pur essere. Perché possa finalmente riappacificarci con l’opera smisurata di uno dei più grandi intellettuali italiani del XX secolo.

I fatti

La sera del 1 novembre Pasolini cenò assieme a Ninetto Davoli e famiglia al ristorante “Pommidoro”, in zona San Lorenzo. Successivamente, intorno alle ventitre, salutato l’amico di sempre, a bordo della sua Alfa GT grigio metallizzato raggiunse la zona Termini, piazza dei Cinquecento, meta consueta di tante notti solitarie dello scrittore, crocevia di miserie dove innumerevoli “ragazzi di vita” vendevano il proprio corpo per poche lire.

A salire sulla macchina di Pasolini quella notte fu il diciassettenne Giuseppe Pelosi, detto “Pino la Rana”, ragazzo di borgata già noto alle forze dell’ordine per episodi marginali di microcriminalità.
Ma, già a questo punto della vicenda, emergono le prime contraddizioni.
Sia durante gli interrogatori preliminari che in sede processuale, Pelosi dichiarò di non aver riconosciuto lo scrittore né di sapere chi fosse, nonostante si trattasse di uno dei volti più celebri dell’epoca. Eppure, secondo la testimonianza del primo compagno di cella, il Pelosi, già all’alba del 2 novembre, a ritrovamento del corpo ancora non avvenuto, avrebbe detto: «ho ammazzato Pasolini». Non solo. I due amici di Pelosi che quella sera erano arrivati a Termini insieme a lui, interrogati durante le prime indagini dichiararono agli inquirenti di essersi fermati a parlare a lungo con Pasolini e di avergli chiesto una parte nel prossimo film.

In ogni caso, lasciata piazza dei Cinquecento, visto che il giovane non aveva ancora mangiato, Pasolini gli offrì una cena veloce in una trattoria in zona San Paolo. Da questo momento in poi, il buio. Una volta lasciato il ristorante, Pelosi resta infatti l’unico testimone di ciò che accadde nelle ore successive. Ma, come vedremo, i racconti di Pelosi sono pieni di contraddizioni, incongruenze e, in molti punti, assai poco credibili.
Di sicuro sappiamo soltanto che da San Paolo i due si diressero verso Ostia, direzione Idroscalo. Ma che bisogno c’era, da San Paolo, di arrivare fino a Ostia per appartarsi? Una domanda a cui né Pelosi, né altri, hanno mai saputo rispondere.

Ore dopo, intorno all’1,30, una volante dei carabinieri incrociò sul lungomare l’Alfa di Pasolini che procedeva a velocità sconsiderata e contromano. Al volante c’era il diciassettenne Pino Pelosi.
Portato in questura per guida pericolosa e furto d’auto, il ragazzo di borgata si limitò a chiedere se gli agenti nella macchina avessero trovato un anello «con una scritta americana sopra».
I carabinieri si recarono a casa di Pasolini, all’EUR, per comunicare il ritrovamento dell’auto intorno alle 4, ma il poeta non era mai rientrato. Poi, all’alba, all’idroscalo, la macabra scoperta del cadavere. Accanto al corpo dello scrittore fu ritrovato l’anello di Pelosi.
Il ragazzo dichiarò immediatamente di aver agito da solo. Ritenuto credibile dagli inquirenti, fu processato dal Tribunale dei Minori come unico autore dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini.

La controinchiesta

Eppure è proprio la sola presenza di Pelosi sul luogo del delitto la parte meno credibile della cosiddetta “verità ufficiale”.

Perché Pelosi non poteva essere solo? Anzitutto, la destinazione. Perché arrivare fino a Ostia se non per un appuntamento, un appuntamento poi trasformato in agguato? A tal proposito vi è la testimonianza raccolta all’epoca dei fatti da Oriana Fallaci, che parla di due motociclisti che seguirono l’auto di Pasolini dal ristorante in San Paolo fino all’idroscalo.

A parte l’ipotesi dei due misteriosi aggressori sulla moto, mai presa in considerazione dalle indagini, è la stessa dinamica dell’omicidio a smentire categoricamente la versione raccontata da Pelosi e ad avvalorare fuori da ogni ragionevole dubbio l’idea della pluralità degli aggressori.

Pelosi racconta di un rapporto orale incompleto e di un successivo litigio con lo scrittore scaturito dal fatto che Pasolini, secondo il ragazzo, non avrebbe rispettato quanto pattuito in precedenza.
“La rana” a questo punto sarebbe sceso di macchina seguito subito dopo dallo scrittore e lì, accanto alla rete di un campo di calcio sterrato, il litigio sarebbe degenerato in un violento corpo a corpo. Per difendersi da Pasolini che, secondo Pelosi, «aveva gli occhi da matto», il giovane gli avrebbe sferrato un potente calcio ai testicoli. Nel seguito della colluttazione, dopo che il poeta si era sfilato la camicia per tamponare il sangue, i due si sarebbero trascinati per circa settanta metri e alla fine Pelosi avrebbe colpito ripetutamente al capo Pasolini con una tavoletta di legno, fino a fargli perdere i sensi. Poi, risalito in macchina, si sarebbe allontanato a tutta velocità senza nemmeno rendersi conto di essere passato sopra il corpo dello scrittore. Infine, imbrattato di sangue, Pelosi, prima di essere bloccato dai carabinieri sul lungomare, si sarebbe fermato a una fontanella per lavarsi.

Ma perché Pelosi sarebbe sceso di macchina? E soprattutto, perché sarebbe sceso di macchina Pasolini senza gli occhiali dai quali, come hanno più volte ricordato tutti gli amici e tutti i parenti, non si separava mai? Più logico supporre che il poeta sia stato estratto a forza e con estrema violenza dall’Alfa.
Una logica confermata in pieno da tutto il successivo svolgersi dei fatti. Anzitutto, l’autopsia stabilì con ogni certezza che Pasolini perse i sensi non per le percosse al capo, come sostiene Pelosi, ma per il violento colpo ai testicoli. Il calcio al bassoventre avvenne quindi nella seconda fase dell’aggressione, e non nella prima come dichiarato dal ragazzo. Impossibile che Pasolini, svenuto, potesse sfilarsi la camicia, tamponare il sangue e infine percorrere settanta metri.
Pasolini fu quindi prima brutalmente e ripetutamente percosso. Non certo con la tavoletta di legno indicata da Pelosi, visto che era completamente fradicia, e quindi destinata a disfarsi dopo pochi colpi, ma con altri e mai rinvenuti oggetti contundenti. L’aggressione, se aggressione doveva essere, poteva ad ogni modo concludersi qui.
Ma evidentemente l’intenzione era, da subito, quella di eliminare per sempre lo scrittore, visto che il corpo già esasusto di Pasolini viene trascinato, ovviamente da più persone, per settanta metri e ulteriormente percosso fino alla perdita di sensi.
Le tracce delle ruote dell’Alfa mostrano con assoluta certezza come il tragitto percorso dall’automobile per passare sopra il corpo di Pasolini non fu assolutamente accidentale, come sostenuto da Pelosi, ma talmente irregolare da essere per forza di cose voluto.

Riguardo a delle macchie di sangue presenti sull’auto, Pelosi sostenne trattarsi delle sue mani sporche del sangue del poeta. Ma quelle macchie furono trovate dalla parte del passeggero, quindi, o Pelosi salì in macchina da quella parte mentre altra persona si trovava alla guida, o Pelosi si trovava alla guida mentre altra persona gli stava accanto.
E ancora: se fu, come sottolineato dal ragazzo, un violento corpo a corpo tra i due, perché Pelosi al momento del fermo dei carabinieri non era completamente imbrattato di sangue? Perché non vi sono macchie di sangue sul volante? Perché, se si fermò a lavarsi a una fontanella, non era minimamente bagnato?
E come spiegare, soprattutto, le testimonianze di numerosi abitanti delle baracche dell’idroscalo (prima fra tutte quella di Ennio Salvetti detto “er pescatore”, che in merito rilasciò una celebre intervista a Furio Colombo sulle colonne de “La Stampa”) che dichiararono di aver sentito, quella notte, una pluralità di voci?
Infine, l’autopsia sul corpo di Pasolini parla di mandibola fratturata in due punti, orecchio destro completamente strappato dal suo impianto, dieci fratture costali, lacerazioni capsulari al fegato. Come è possibile pensare che un ragazzo di diciassette anni e nemmeno sessanta chilogrammi di peso possa da solo aver compiuto un simile massacro?

Le ombre del complotto e la ritrattazione di Pelosi

Tutto questo convinse il Tribunale dei Minori, con la sentenza di Primo Grado del 26 aprile 1976, a condannare Pino Pelosi per «omicidio volontario in concorso con ignoti». Ma sia in Appello (4 dicembre 1976) sia in Cassazione (26 aprile 1979), pur confermando la condanna per Pelosi, sparisce completamente ogni riferimento alla probabile presenza di altri aggressori.
Una decisione francamente incomprensibile e inspiegabile se non con la volontà, da parte degli inquirenti, di aggrapparsi a un reo confesso poco credibile per chiudere il più in fretta possibile una vicenda troppo scomoda e, forse, troppo pericolosa.

Se infatti appare più che probabile che la morte di Pasolini sia il frutto di un agguato premeditato, automaticamente si aprono altri e ben più inquietanti interrogativi: chi e perché voleva uccidere Pasolini?
Oriana Fallaci al processo contro Pelosi per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini in una foto del 18 luglio 1977 (immagine di archivio Ansa da http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Oriana-Fallaci-una-vita-spesa-a-raccontare-la-storia-sino-allo-scontro-con-Islam-radicale-79e27cf7-cfaf-49b3-89a6-8e6aa9dda793.html

Oriana Fallaci al processo contro Pelosi per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini in una foto del 18 luglio 1977 (immagine di archivio Ansa da http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Oriana-Fallaci-una-vita-spesa-a-raccontare-la-storia-sino-allo-scontro-con-Islam-radicale-79e27cf7-cfaf-49b3-89a6-8e6aa9dda793.html

Una questione che negli anni ha dato vita alle tesi più disparate, suggerendo infinite piste investigative che però non sono mai approdate a una reale riapertura del caso in sede giudiziaria e processuale.
Lasciando da parte le teorie più fantasiose, spesso prive di riscontri e alimentate esclusivamente da un certo gusto morboso del complottismo a tutti i costi, sono tuttavia emersi elementi tali da aprire la strada a scenari a dir poco vertiginosi.

Alla base di tutto la completa ritrattazione di Pino Pelosi, avvenuta nel 2005 negli studi televisivi di Ombre sul Giallo, trasmissione Rai. L’ex ragazzo di vita, in questa sede, ribaltando totalmente quanto sostenuto trent’anni prima, affermò di non essere l’esecutore materiale del delitto, ma solo un impotente testimone oculare. A uccidere Pasolini, secondo Pelosi, sarebbero stati tre uomini a lui sconosciuti, dal forte accento siciliano, che avrebbero raggiunto l’idroscalo a bordo di una Fiat targata Catania.
La cosa più interessante è che quanto detto da Pelosi trova riscontro con alcuni elementi già emersi nel corso delle primissime indagini.
Anzitutto una lettera anonima inviata alle autorità appena venti giorni dopo l’omicidio in cui si affermava che, la notte del delitto, la macchina di Pasolini era stata seguita da una Fiat targata Catania di cui si riportavano solo i primi quattro numeri di targa. La lettera fu ignorata dagli inquirenti e non venne effettuato alcun controllo in merito.
Ma soprattutto, due fratelli siciliani, soprannominati “Braciola” e “Bracioletta”, erano entrati nelle indagini sin dal 1976, con il processo a carico di Pelosi ancora in pieno corso. Un carabiniere all’epoca infiltrato nella malavita romana raccolse la confidenza dei due giovani criminali, che dichiararono di aver partecipato al massacro assieme ad altre persone. Arrestati, ritrattarono tutto affermando di essersi attribuiti il delitto solo per vanità.
I due fratelli (entrambi deceduti all’inizio degli anni ottanta) furono rilasciati, mentre il carabiniere fu trasferito poco dopo ad altri servizi. Eppure, che i siciliani fossero o meno implicati nel delitto, la strada suggerita dall’agente avrebbe meritato senz’altro maggior attenzione. Braciola e Bracioletta infatti, assieme a Pelosi frequentavano un centro ricreativo che fungeva da copertura per le attività terroristiche dei gruppi di estrema destra operanti in quegli anni a Roma. Quegli stessi gruppi che avevano più volte lanciato avvertimenti a Pasolini e che, pochi giorni dopo l’omicidio, distribuirono sul lungotevere volantini recanti la foto di Pasolini e la disgustosa didascalia «uno di meno». Quegli stessi gruppi che, spesso e volentieri, si servivano dei ragazzi di borgata per le operazioni di più sporca manovalanza.

Ma l’ipotesi in assoluto più inquietante è quella che lega il delitto Pasolini alla lotta di potere tra ENI e Montedison, agli scandali petroliferi di quegli anni, alla morte di Enrico Mattei e alla figura di Eugenio Cefis. Lo scrittore infatti era impegnato nella prima stesura di Petrolio, un romanzo (uscito postumo solo nel 1992) che a detta dello stesso Pasolini lo avrebbe tenuto forse impegnato per il resto dei suoi giorni e del quale, a differenza delle opere precedenti, si sarebbe rifiutato di fornire alcuna anticipazione sui contenuti.

Pasolini stava indagando da molto tempo sul ruolo svolto da Cefis nella politica italiana, finendo per farne uno dei personaggi chiave di Petrolio con lo pseudonimo di Troya e arrivando a sostenere un suo ruolo attivo e centrale nello stragismo italiano legato al petrolio e agli intrighi internazionali. Sarebbero quindi da ricercare proprio tra le pagine di questo capolavoro incompiuto le reali motivazioni della morte del poeta.

A che punto è la notte?

Alla luce di tutti questi indizi, nonostante personaggi assai vicini a Pasolini (in primis i cugini Graziella Chiarcossi e Nico Naldini) neghino con forza qualsiasi complotto riconducendo l’omicidio a una semplice notte balorda deflagrata in tragedia, soprattutto negli ultimi anni si sono susseguiti molti tentativi di riaprire le indagini, a partire dalle dichiarazioni dei registi amici dello scrittore Franco e Sergio Citti, da sempre convinti della matrice “politica” della morte dello scrittore.
Particolarmente attivo in tal senso è stato l’ex sindaco di Roma Walter Veltroni, il quale nel 2009 scrisse una lettera aperta all’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano con la quale chiedeva la riapertura del caso, sottolineando come Pasolini fosse morto negli anni in cui «si facevano stragi e si ordivano trame».

Lo stesso Veltroni, un anno più tardi, a seguito di misteriose dichiarazioni mai del tutto chiarite di Marcello Dell’Utri, il quale sostenne di aver avuto tra le mani e poi perduto un capitolo inedito di Petrolio intitolato “Lampi su ENI”, chiese un’interpellanza parlamentare all’allora ministro della cultura Sandro Bondi.
Nonostante non si sia mai saputo chi avesse recapitato a Dell’Utri il fantomatico capitolo fantasma, grazie a queste nuove dichiarazioni l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini sono riusciti a riaprire ufficialmente nuove indagini nell’aprile 2010.
Ma anche questa volta, nonostante un immenso lavoro svolto e nonostante siano emersi, a detta del legale, nuovi e decisivi elementi a tutt’oggi comunque sconosciuti, gli inquirenti ancora una volta non hanno ravvisato svolte decisive e nel maggio scorso hanno definitivamente archiviato il caso.

Ma non finisce qui. Poche settimane fa lo stesso avvocato Maccioni si è fatto promotore di una petizione popolare per la richiesta di una commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto. Un’istanza raccolta dalla deputata Serena Pellegrini e subito sottoscritta da altri settanta parlamentari.
Se la richiesta verrà accolta le indagini potranno ricominciare e forse stavolta non sarà l’ennesima occasione perduta.
Noi aspettiamo, perché crediamo fermamente in quel cartello che il giorno dei funerali di Pasolini recitava a grandi lettere «non lasciamo che uccidano i poeti». E ricercare incessantemente la verità è il modo più alto, puro e sincero di tenere in vita la poesia.

 

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