C’era una volta una Repubblica fondata sul lavoro…

Mario Monti, durante quel breve periodo in cui si trovò a capo di un esecutivo tecnico su mandato del Presidente Napolitano, in uno slancio di disarmante sincerità definì la mia generazione (quelli tra i trenta e i quarant’anni, per intenderci), una generazione perduta, senza alcuna speranza.
Aveva tragicamente ragione.
Noi siamo la generazione che ha esordito nel mondo del lavoro con i contratti a progetto, che non ha – salvo rare eccezioni – mai potuto usufruire di sussidi di disoccupazione, che non si è potuta ammalare, che non ha potuto avere lutti familiari, emergenze di ogni tipo, che non è potuta rimanere incinta, perché non ha avuto il diritto alle ferie retribuite, ai permessi per gravi motivi di famiglia, alla maternità.
Noi siamo la generazione che ha dovuto fare le valigie e andare all’estero non tanto per cercare lavoro, quanto per trovare dignità professionale, tutele, aumenti salariali dovuti agli anni di servizio e alle competenze acquisite e dimostrate sul campo. Sia che facesse il cameriere sia che facesse il ricercatore.
La generazione che invece dello stipendio ha ricevuto voucher da cambiare successivamente nelle tabaccherie, come fosse una vincita all’enalotto.
Le generazione che è stata costretta ad aprire una partita iva pur senza esercitare una libera professione.
La generazione che ha lavorato gratis per mesi, anni, dietro richiesta di credere nel progetto.
La generazione costretta a firmare il suo licenziamento nel momento stesso dell’assunzione.
La generazione mantenuta dalla pensione dei genitori per tutta la vita.
Aveva ragione Monti a definirci perduti. A 35, 40 anni, si arriva a un punto in cui è difficile stabilizzarsi, una terra di mezzo in cui per il lavoro si è troppo giovani o troppo vecchi.
Ce la fa il singolo, ce la fanno i casi. Ma la generazione resta perduta.
Forse quelli che arriveranno, quelli che oggi non hanno ancora trent’anni, troveranno una situazione migliore. Ma ne dubito.
Noi abbiamo assistito increduli, esterrefatti e forse colpevolmente impotenti alla demolizione progressiva e sistematica dei nostri diritti. Quelli che verranno troveranno un deserto di incertezza, instabilità e negazione della dignità lavorativa di ogni individuo già acquisite, già considerate normali, semplici dati di fatto.
Molto probabilmente troveranno un paese senza più nemmeno l’articolo 18.
I sostenitori dell’abolizione di questo articolo dello Statuto dei Lavoratori risalente al 1970, ripetono che difenderlo è puro conservatorismo, un preconcetto ideologico, un dogma.
Può darsi che l’articolo 18 sia più che altro un simbolo, e che anche riuscendo a conservarlo l’attuale drammatica situazione del lavoro non cambierebbe di una virgola.
Però, abolendo anche il licenziamento per giusta causa, dando ai datori di lavoro possibilità di licenziare quando e come vogliono senza fornire alcuna spiegazione, chi e cosa resta a tutela del lavoratore?
E che cosa resta di una Repubblica nata sul principio della sacralità del lavoro dell’individuo nel momento che viene trasformata in uno Stato basato sul liberismo più estremo?
I diritti del lavoratore sono stati il frutto di battaglie lunghe almeno 100 anni, costate migliaia di morti. Battaglie, lotte, tensioni, scontri, morti di colpo spazzati via da provvedimenti che sotto la definizione ingentilita di riforme, vanno a smantellare sistematicamente tutte queste conquiste.
Colpa di Berlusconi, si continua a ripetere.
Magari fosse così semplice, rispondo io. La colpa, semmai, più che di Berlusconi, è del ventennio berlusconiano, uno dei periodi più schizofrenici della storia, dove il Cavaliere non aveva nemmeno bisogno di governare, visto che quando stava all’opposizione il Governo lavorava comunque per lui.
Non solo cinque anni di governo di centrosinistra (1996-2001) non sono stati capaci di produrre una legge contro il conflitto d’interesse, ma tutte quelle meraviglie elencate sopra (contratti a progetto e via dicendo) sono state operazioni del Governo D’Alema (1998-1999), che battezzandole col nome accattivante di flessibilità pretendeva di aver scoperto la ricetta per il rilancio dell’economia.
E se D’Alema è stato l’uomo della flessibilità, Matteo Renzi sarà quello della abrogazione dell’articolo 18.
E fa davvero male, malissimo, vedere di nuovo il centrosinistra (o, a questo punto, presunto tale), stuprare e cancellare tutti quei diritti conquistati tra lacrime e sangue e sacrifici immani proprio dalla sinistra.
Non so dire di preciso che mondo ci aspetta, nei prossimi decenni.
Ma forse avrò un figlio, e di sicuro un giorno gli dovrò raccontare una storia, che comincerà così:
C’era una volta una repubblica fondata sul lavoro… 

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *