Italia Anno Zero

Nel 1948 il regista Roberto Rossellini scelse come set naturale del suo film le strade e le piazze di una Berlino devastata e ridotta a un cumulo di macerie. Il risultato fu il capolavoro “Germania anno zero”, un lucido e spietato apologo sul dramma di un’umanità distrutta e senza più direzione, accecata di dolore e follia, dove le macerie degli esterni non sono altro che la metafora del disfacimento interiore di ogni essere umano dilaniato dal dramma della guerra.
Con le macerie – ideologiche, psicologiche, morali – oggi è l’Italia che si trova a fare i conti, al termine di un colossale dramma dell’assurdo culminato con la più grottesca elezione del Capo dello Stato che la storia della repubblica ricordi. La (ri)elezione di Giorgio Napolitano è stata senza dubbio la fine di un’agonia, l’atto finale di un paese pericolosamente privo di istituzioni da un intero bimestre. Ma qual è stato, e soprattutto quale sarà, il prezzo da pagare? E, soprattutto, è una soluzione reale o quanto meno accettabile? E con quali scenari ci troviamo costretti a fare i conti in questo pericoloso ‘anno zero’?
Andiamo con ordine.

1. La rielezione di Napolitano. Sgombriamo subito il campo da qualsiasi equivoco. Non è la persona in quanto tale a essere in discussione, né il suo profilo morale e istituzionale, ma il meccanismo che ha portato a questa soluzione a risultare inaccettabile, nonché tutte le possibili conseguenze che da tale decisione possono derivare. La conferma di un Presidente uscente è anzitutto un’anomalia istituzionale. Se infatti sul piano formale la Costituzione non vieta la rielezione del Presidente, sorge quanto meno il dubbio che in una scelta simile vi sia una pesante contraddizione ideologica con la carta costituzionale. Un mandato di sette anni copre già di per sé un arco cronologico immenso, senza eguali nelle altre democrazie, giustificato tuttavia dal ruolo di supremo garante che la Costituzione gli riconosce e, soprattutto, dalla necessità di impedire la coincidenza tra il periodo del suo esercizio e quello della legislatura parlamentare. Un mandato bis presuppone un esercizio di ben quattordici anni, un lasso di tempo più simile a un pontificato che a un ruolo di garante repubblicano. Detto questo, l’età del Presidente. I miei scritti sono testimoni di come non abbia mai ceduto a facili dietrologie sullo svecchiamento a tutti i costi, di come abbia sempre pensato che rinnovamento non sia sinonimo di giovinezza anagrafica. Eppure, al termine di questo secondo mandato Napolitano avrà 95 anni. Oggettivamente troppo. Anche Fidel Castro ha lasciato prima. Ma anche tolte (a fatica) queste anomalie formali, restano questioni più profonde e traumatiche. Prima di tutto il fatto, inconcepibile in sé, che al termine di una campagna elettorale avvenuta – per tutte le parti politiche – all’insegna della necessità del rinnovamento a tutti i costi, si scelga di rileggere uno statista di 88 anni come ‘unica soluzione possibile’. Perché non c’è niente di meglio. Perché nessun altro è in grado. Ma in grado di fare cosa? È qui che si apre lo scenario più inquietante: non tanto in grado di svolgere le sue funzioni (per quello era all’altezza ciascuno dei pretendenti al Quirinale che si sono convulsamente avvicendati in questi giorni), quanto in grado di garantire gli interessi (e la tenuta) dei principali partiti. I termini più di moda in queste ore per definire questa operazione sono ‘incuicio’ e ‘accordicchio’. Parole magari d’effetto ma che non chiariscono in pieno la natura assolutamente perversa del tutto. In sostanza: nel moltiplicarsi dei veti incrociati, nell’avvitamento di faide interne senza sbocco, nel pericolo concreto di perdere il proprio feudo, anziché cercare soluzioni altre, anziché tenere fede alle promesse di cambiamento sbandierate in campagna elettorale, si preferisce mantenere il rassicurante status quo. Non è un caso che la soluzione Napolitano bis sia frutto di una convergenza tra i partiti protagonisti della precedente legislatura (PD, PDL, Lega e Scelta Civica), e che le voci ‘dissonanti’ siano invece le forze appena entrate (Cinque Stelle, Sel). Alla necessità di superamento della Seconda Repubblica si preferisce la sua immobile conservazione. Cambiare tutto affinché non cambi nulla, potrebbe essere la sintesi.
2. La passione di Bersani e il suicidio del PD. È un’immagine sconfortante vedere Bersani in lacrime sui banchi del parlamento. Al di là delle facili ironie su giaguari e affini, Bersani era il leader designato dalla base di centrosinistra. Legittimato dai suoi stessi elettori a guidare una coalizione. Un leader condivisibile o meno, ma serio e con in testa un’idea di governo e di Italia ben precisa. Ha finito per essere l’agnello sacrificale di un partito contraddittorio e schiavo delle correnti, il capro espiatorio di un’implosione inevitabile di cui la pazzesca debacle elettorale è stato l’ovvio detonatore. Non meritava tutto questo, non lo meritava di certo. Queste assurde elezioni presidenziali hanno avuto come perno uno psicodramma collettivo e fratricida tutto interno al PD, una sorta di riedizione in chiave farsesca della rivoluzione francese per cui Danton manda a morte Brissot, Robespierre manda a morte Danton e Barras manda a morte Robespierre. Il suicidio politico e l’incapacità di gestire sconfitte, per quanto clamorose, è purtroppo – si sa – parte integrante e inspiegabile del codice genetico della sinistra. Ma quanto accaduto questi giorni va al di là di ogni logica e di ogni storia. Fino alla carta Marini, per quanto contestabile e contestata, il tutto poteva rispondere a una logica di tattica e strategia. Nel senso: dimostriamo l’impossibilità di convergenze e poi andiamo avanti con il nostro nome. Ma così non è stato. Il PD è riuscito a immolare, tritare e massacrare con agghiacciante disinvoltura il nome di Romano Prodi, il nome più alto della sua storia, lo stesso ispiratore, fondatore e padre nobile dell’intero progetto che sottende la nascita di questo partito. Pazzesco. Ancora più che pazzesco se si pensa che l’elezione mancata di Prodi dipende esclusivamente dai voti mancanti dello stesso PD. Il PD che volta le spalle all’essenza del PD. Anzi, ancora peggio: il PD che volta le spalle all’essenza del PD per colpire, in una logica tutta interna di correnti e rivendicazioni personali, Bersani, il segretario del PD, investito premier dalla base tramite primarie. Nemmeno Samuel Beckett avrebbe osato tanto grottesco. Di conseguenza: esiste ancora questo partito?
3. Rodotà. Mai stato tenero con Grillo e con i grillini. Basta seguire la mia pagina per leggerlo con chiarezza. Eppure, occorre ammettere come in questo valzer di tiri al bersaglio e gioco delle parti, Beppe Grillo abbia finito per essere uno dei pochi a dire cose sensate. Grillo ha giocato la sua partita coerentemente e a viso aperto, sostenendo il proprio candidato dall’inizio alla fine. Una partita che, volontariamente o no, ha finito per far esplodere ulteriormente tutte le contraddizioni del PD. Grillo ha proposto Rodotà, un candidato non solo di altissimo profilo, ma il cui curriculum oltretutto è completamente coincidente con la storia del centrosinistra, di cui è stato una delle figure più alte e autorevoli. Per quale motivo non è stato votato? A quale logica di gioco-forza risponde questa decisione? A quale smania di conservazione? Non è stato detto. O, se è stato detto, nessuno l’ha capito. In particolare non l’ha capito la base del PD. Una base che ha accettato tutto e di tutto, e che sostanzialmente chiedeva una cosa sola: mai accordi con Berlusconi. Vendola questo l’ha capito. Il PD no. O peggio ancora non ha voluto capirlo.
4. L’apoteosi berlusconiana. In vent’anni Berlusconi ha inanellato successi importanti e clamorosi. Ma questa elezione presidenziale è senza dubbio la sua affermazione più netta e assoluta. Berlusconi raggiunge la sua apoteosi proprio nel frangente storico che doveva decretare il suo definitivo tramonto. Il PDL esce da queste sei drammatiche votazioni fortissimo, compatto e – suona pazzesco anche solo dirlo – con una ritrovata verginità. Lo svolgersi grottesco degli eventi riconsegna un Berlusconi più forte di prima, con un’immagine di onnipotenza e affidabilità ormai impossibile da scalfire. Il prologo tragico a un’altra probabilissima affermazione elettorale. Che per vent’anni, a suon di scelte sbagliate, timide e incongruenti, sia stato proprio il centrosinistra a tenerlo in vita, è risaputo. Ma stavolta, per vincere, il Cavaliere non ha dovuto nemmeno muovere un dito, non ha dovuto nemmeno tirare fuori dal cilindro uno dei suoi proverbiali spot elettorali. Ha semplicemente dovuto osservare il tutto immobile, spettatore divertito di uno scenario quasi più squallido di lui. Stavolta, unico artefice del suo trionfo è stato proprio il PD. Chi e come spiega agli elettori del PD che in realtà a febbraio hanno votato per Berlusconi?
5. Che cos’è la sinistra? Alla luce di tutto questo, si ripropone un interrogativo drammatico e, a questo punto, quanto mai urgente: cos’è la sinistra? Quale identità, quali valori, quali direzioni? La notte dei lunghi coltelli del PD ha mostrato un partito debole e sfaldato, una torre di Babele claudicante, in guerra con se stesso ma, soprattutto, privo di unità e di compattezza ideologica. Dove i cattolici fanno gli interessi dei cattolici, gli ex ds gli interessi degli ex ds, i liberisti gli interessi dei liberisti, i dalemiani gli interessi dei dalemiani, i renziani quelli dei renziani e nessuno fa l’interesse del partito. Un partito reale soltanto sulla carta ma, di fatto, inesistente. Ha senso che esista ancora? Ha senso tenere insieme questa rissosa e scollacciata armata Brancaleone capace soltanto di collezionare occasioni perdute? Avrebbe senso a questo punto riconsiderare tutto, interrogarsi seriamente su cosa sia la sinistra del nuovo millennio e magari, finalmente, costruire un soggetto politico forte realmente di sinistra. Avrebbe appunto, il condizionale non è un caso. Perché nonostante appaia come scontato e necessario, la storia più recente ci insegna l’impossibilità di portare a termine una simile operazione (come quando, tanto per citare uno degli innumerevoli esempi, si fece in modo di disperdere nel nulla i tre milioni in piazza a Roma mobilitati da Cofferati nel 2002). A un progetto concreto, razionale e finalmente unificante, si continua a preferire la tentazione delle fusioni a freddo. Perché? Ha senso sperare ancora?
6. La sindrome Giolitti. Nel 1921, con le masse popolari straziate da un tragico dopoguerra, con una crisi economica insostenibile, con la tensione sociale alle stelle sfociata nelle occupazioni del biennio rosso, con un sistema parlamentare sfinito e logoro, con una richiesta sempre più pressante di cambiamento da parte della base, l’unica ricetta delle istituzioni fu affidare nuovamente il governo – per salvare lo status quo del regime liberale – allo statista ultraottantenne Giovanni Giolitti, garante di un governo di larghe intese. Oggi, 2013, con una crisi economica insostenibile, con la sopportazione popolare al limite massimo di tolleranza, con una richiesta sempre più pressante di cambiamento da parte della base, l’unica ricetta delle istituzioni è di affidare la guida dello stato – per salvare lo status quo della seconda repubblica – all’ultraottantenne Giorgio Napolitano, che con ogni certezza si farà garante della formazione di un governo di larghe intese sotto la probabile guida di Giuliano Amato. Una soluzione che il popolo non vuole e non capirà. Allora, 1921, il risultato di queste scelte politiche fu la marcia di Roma, vent’anni di dittatura barbara e feroce, una guerra mondiale e una guerra civile. Aspettiamo.