A che serve un insegnante

Questa storia è vecchia di qualche mese. La foto, e l’articolo da cui è tratta (firma di Alex Corlazzoli, il Fatto Quotidiano) risalgono a settembre, anno scolastico appena iniziato, solo che per qualche strano giro della rete mi sono capitati sotto gli occhi giusto ieri.
Ma sinceramente la data importa poco. Potrebbe essere di un giorno, un mese o un anno fa e non cambierebbe nulla. Ciclicamente, articoli di questo genere ritornano affollando web e carta stampata.
L’argomento è sempre quello: l’incapacità degli insegnanti.
In questo caso specifico: una nonna scrive al giornalista segnalando che, siccome il nipotino durante le vacanze estive non ha né letto alcun libro né scritto alcun pensierino, la maestra lo ha punito con una nota.
Il giornalista raccoglie l’appello della nonna e la maestra – apostrofata come “maestrina dalla penna rossa” – finisce sul banco degli imputati. Colpevole di insensibilità, di aver frustrato e mortificato l’infanzia del bambino, di non aver saputo vedere cosa ci fosse dietro la sua negligenza, di aver distrutto la sua spensieratezza, di aver messo in atto, con la nota, una “bestemmia pedagogica”.
In definitiva, di essere incapace. Come insegnante e forse pure come essere umano.
Che ci siano insegnanti incapaci non solo è possibile, ma è fuor di dubbio. Come in tutte le categorie, anche quella dei docenti conta nelle sue fila pessimi lavoratori e pessimi esempi. E che nello specifico la maestra rammentata nell’articolo possa aver sbagliato è un’eventualità da prendere in considerazione. Così come, in generale, l’opportunità o meno di mettere note può essere oggetto di discussione.
Ma non è questo il punto.
Il punto è il tono dell’articolo.
Un articolo che non dice né spiega nulla del contesto in cui la cosa è maturata, se il bambino avesse problematiche specifiche e di che genere fossero. Un articolo che è una requisitoria contro la maestra, scritto nella convinzione, a priori, che l’insegnante sia nel torto, totale e assoluto. Un articolo che non lascia il minimo spazio alle possibili ragioni della maestra, al dubbio che la punizione sia stata data per il bene del bambino. Talmente forte è la certezza dell’incapacità dell’insegnante da concludere, in maniera netta e tranchant, che le note andrebbero abolite, e che semmai andrebbero messe agli insegnanti che le danno.
Eppure gli insegnanti sono professionisti, che usano determinati strumenti in base a competenze ed esperienze specifiche. Quanto meno, meriterebbero di essere ascoltati prima di esprimere giudizi.
Professionisti oltretutto diversi tra loro, che usano metodi e approcci altrettanto differenti. Né più giusti né più sbagliati, ma semplicemente diversi. E la nota, la sanzione disciplinare, che ci piaccia o no, è uno strumento didattico più che legittimo.
Da studente ho avuto splendidi insegnanti severissimi e splendidi insegnanti dialoganti e tolleranti.
Da docente – e da docente che non mette note – ho ottimi e validissimi colleghi che mettono note in maniera completamente logica e giustificata.
Il problema è che l’articolo fotografa fin troppo bene la situazione attuale: l’insegnante è un professionista che non è percepito come tale, ma come un incompetente che lavora bene solo quando fa quello che gli ordinano di fare le famiglie e l’opinione pubblica. E, se non lo fa, sbaglia a prescindere.
Una pretesa di scuola “ad personam”, ovvero modellata non sui bisogni, ma sulle convenienze della famiglia dell’alunno, totalmente deleteria. Non deleteria per gli insegnanti, ma per i ragazzi.
Allora la domanda che si dovrebbero fare tutti – famiglie, opinione pubblica e autori di articoli come questo – non è a che servono le note. Ma, se si parte dalla convinzione che tutti in materia di educazione ed istruzione siano più pronti, preparati e competenti dei docenti, a cosa servono gli insegnanti. E perché mai continuano a mandare a scuola i loro figli.

#resistenzeRiccardoLestini

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