Finisce qui, finisce così

Non farò un’analisi del voto. Non stavolta. Non serve nemmeno, i dati sono lì, limpidi, chiari e inequivocabili: inutile e risicata maggioranza del centrosinistra, prodigioso recupero di Berlusconi, ultra vittoria di Grillo. Nient’altro da dire. O da commentare.
La mia analisi guarda altrove, è – per così dire – strettamente intima e individuale. Forse, addirittura esistenziale. Che probabilmente non interessa nessuno, ma la scrivo lo stesso.
C’è un sostantivo tanto caro alla psicanalisi e alla letteratura che descrive perfettamente il mio stato d’animo: alienazione, vale a dire un senso di totale estraneità e inappartenenza a tutto il circostante. Forte, profondo, uno strappo irricucibile. Così forte da farmi dire, davanti ai risultati elettorali, che per me può sinceramente bastare così.
Non è delusione o scoramento per la mancata vittoria della sinistra. Non è nemmeno indignazione o risentimento o peggio ancora senso di superiorità nei confronti di chi ha fatto scelte diverse dalle mie. È qualcosa di più.
Faccio politica attiva dal 1991, esattamente da 22 anni, una parabola militante che quasi esattamente va a coincidere con la storia della II repubblica: i collettivi studenteschi, poi quelli universitari, i centri sociali occupati, Rifondazione, il Social Forum, i Disobbedienti, le tute bianche, i girotondi, Aprile, ancora Rifondazione, l’Arcobaleno, Vendola, il centrosinistra. Ventidue anni sulla breccia, dove ho sempre lottato col cuore, sputando (non solo metaforicamente) sangue in nome di ideali per me altissimi. Sono abituato a perdere e a essere minoranza.
Se però oggi, davanti al funerale della II repubblica decido di tirarmi indietro, è perché, oggi più che mai, sento di essere estraneo non tanto nei confronti della classe politica e del suo sistema, quanto nei confronti di ciò che gli antichi greci chiamavano “paideia’. Vale a dire il complesso insieme di norme non scritte che formano l’anima, la cultura e l’etica di un popolo. È perciò nei confronti dell’intero paese che sono costretto a constatare questa totale e tragica mia estraneità. E lo dico senza snobismo e senza ironia. Accetto serenamente le scelte fatte dagli elettori e, da cittadino, per giunta di orientamento socratico, mi ci rimetto senza colpo ferire. Ma oggi sono più che mai costretto a prendere atto che le cose in cui credo sono morte, che per due decenni ho gridato cose che, con i concreti bisogni e con il comune sentire degli italiani, non hanno nulla a che vedere. Non sto rinnegando né abiurando niente. Rivendicherò sempre tutta la mia storia politica, errori compresi. Solo certifico l’estraneità.
E soprattutto certifico il mio abbandono della politica attiva. C’è un linguaggio che non capisco, esigenze che non riesco più a intercettare. La mia coscienza, da critica deve farsi spettatrice. Anche la vena più civile e impegnata della mia attività di scrittore, deve tacere. A parte il piacere edonistico – e assurdo – di farmi dire bravo da chi la pensa come me, non ha davvero più senso.
Spero che i diciottenni e i ventenni di oggi abbiano più lucidità, più forza e più coraggio della mia generazione. Che sappiano essere meno fragili di me, di noi. Che magari riescano davvero a costruire un paese dove ci si senta orgogliosi di vivere.
Ma adesso non riesco a pensarci, così come non riesco a pensare ai futuri scenari governativi. Ho bisogno di sparire dalla scena, di essere il riflusso privato di me stesso, di occuparmi solo ed esclusivamente di letteratura.
Non so per quanto tempo. So solo che adesso per me finisce qui. Finisce così.
Buona fortuna

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