Faber

Non mi sono mai piaciuti gli anniversari, le ricorrenze. Hanno un che di funebre che inquieta. In più, ho la pretesa di pensare che nemmeno a te piacessero molto.
Per questo scrivo oggi e non tre giorni fa.
Si dice che il passare del tempo sbiadisca i ricordi e allontani le emozioni. Nel tuo caso non è così. Più passa il tempo e più il vuoto che hai lasciato appare incolmabile.
Ci manchi, Faber. E ci mancano soprattutto i tuoi silenzi. Sembra strano dirlo a uno che dei suoni ha fatto la sua ragione di vita. Eppure so che puoi capirmi, da qualunque posto ora ti trovi. Ci mancano i tuoi silenzi, le tue pause, quel tuo non apparire, quel tuo parlare solo e soltanto quando avevi qualcosa da dire.
Sono stati quei silenzi a rendere ancora più grande la tua poesia, a rendere ancora più gigantesche le tue parole.
Con te eravamo meno soli. E’ il destino dei poeti, essere di tutti e appartenere a chiunque. E ti amavamo proprio perché non sei stato mai capace di strizzarci l’occhio, perché sei stato capace di essere di tutti restando sempre e comunque soltanto di te stesso.
Ci emozionava quel tuo imbarazzo mai celato che avevi dietro il microfono, il pudore dei capelli a coprirti l’occhio, quel tuo fare aristocratico nell’indirizzare gli sguardi, la sigaretta salda tra le tue dita.
Dirti altro non so, non so davvero. Forse ringraziarti. E forse dirti che quella sera, quando a teatro la tua silhouette si è materializzata dal buio sulle note di “Creuza de ma”. Ed è partito il concerto. E l’emozione più forte della mia vita.
Grazie, amico fragile.