Pensando a Proust

Con l’”Ulisse” di Joyce è stato molto semplice. Mi sono fatto coraggio (ero molto coraggioso, a ventuno anni) e l’ho letto tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine. E ‘letto’, in questo caso, è un termine davvero molto riduttivo. Quel romanzo (romanzo?) l’ho letteralmente vissuto, divorato, scorporato, sezionato, amato, citato, copiato. Con la “Recherche” di Proust invece è stato un po’ più difficile (è questa, me ne accorgo scrivendo, la prima volta in cui cedo anch’io all’accostamento tra queste due opere immense, accostamento tanto caro alla critica classica, accostamento fatto più per ragioni di comodo e superficiali che per motivi reali e profondi; dev’esser vero allora, a trentacinque anni comincio proprio a essere un po’ meno estremista…). La “Recherche” iniziai a leggerla soltanto dietro infinite pressioni psicologiche della mia fidanzata di allora (correva l’anno 1999), che dopo averne acquistato un’elegante edizione Mondatori con tanto di contenitore rigido per tutti e sette i volumi, passava ore e ore a sospirare su quelle pagine, sottolineando i passi più importanti e ricopiando i più amati in un quadernino a carta zucchero. Non avevo i soldi per comprare anch’io quell’imponente meraviglia editoriale (e non riuscendo a godermi – mi capita ancora oggi – un libro in prestito), acquistai i primi due volumi sciolti. Li lessi uno dietro l’altro. “Dalla parte di Swann” mi piacque molto, mentre “All’ombra delle fanciulle in fiore” m’infiammò letteralmente il cuore. Stupendo. Così stupendo che corsi a comprare il terzo, “I Guermantes”, che però riuscii a finire con una fatica immensa e spropositata. E come sempre accade con i romanzi finiti con fatica, non mi rimase addosso nemmeno una parola. Per puro dovere presi anche il quarto, “Sodoma e Gomorra”, ma – sacrilegio! – nemmeno lo finii, e lo abbandonai lì, a poco meno di metà, stanco e annoiato.
Anni dopo capitò che per un corso fui costretto a riprendere in mano la “Recherche”, in particolare il volume conclusivo, “Il tempo ritrovato”. Lo lessi senza sapere niente dei tre che lo precedevano, ma non me ne preoccupai granché. Quel libro non mi disse molto e la storia si chiuse lì.
Ogni volta che mi capitava di parlare della storia del romanzo del ‘900, e quindi di non poter prescindere né dall’”Ulisse” né dalla “Recherche”, riflettevo sempre su come avessi disperatamente amato il primo e come non fossi riuscito nemmeno a finire il secondo. Pensavo che il motivo fosse uno e semplice: l’”Ulisse” parlava a me, mi riguardava nel profondo, mentre la “Recherche” no. Mi sbagliavo profondamente. Qualche anno fa (quattro mi pare), l’Einaudi pubblicò tutta la “Recherche” in un unico tomo, sette romanzi stipati e stampati in carattere minuscolo (così piccolo da trasformare le 3.000 pagine in circa 1.600) in un solo volume. Una follia troppo bella per non acquistarla. Così feci. Era complicato anche tenerlo in mano quel libro poderoso e gigantesco, ma senza battere ciglio e senza nemmeno pensare a tutte le incertezze che Proust mi aveva provocato in passato, ricominciai a leggerlo, dall’inizio alla fine, partendo dal primo romanzo fino ad arrivare all’ultimo senza fermarmi un secondo. Fu strabiliante e illuminante. L’effetto fu contrario alla prima faticosa lettura e, stavolta, ogni singola parola di quell’oceano sterminato mi si rovesciò addosso come una pioggia attesa da secoli. Per un anno abbondante non feci altro che parlare di Proust e di quell’immane capolavoro. Ma la mia storia con quell’opera non era per niente finita. Anzi, era appena iniziata. Mesi fa mi è venuta voglia di rileggerlo, e così ho fatto, senza battere ciglio, sempre su quell’unico volume gigante Einaudi, sempre dall’inizio alla fine. Se possibile, l’ho amato ancora di più. Ma soprattutto, ho finalmente capito. Quella fatica in prima lettura dipendeva dall’esatto contrario di quel che pensassi: era stato così facile amare e divorare l’”Ulisse” proprio perché mi riguardava un po’ meno, proprio perché io e il buon Leopold Bloom di cose in comune ne avevamo meno di quanto pensassi. Mentre nella “Recherche” c’ero dentro fino al collo da sempre, e Marcel m’era così vicino da essere quasi una parte di me. Succede così a volte: le cose che ci corrispondono di più ci spaventano, ci affaticano e per proteggerci evitiamo di riconoscerle e le allontaniamo.
Ho passato molto tempo recente a scacciare a calci le cose che più mi riguardassero, le cose a me più vicine. Aver ritrovato e capito fino in fondo il mio rapporto con la “Recherche” proprio in questi mesi di riappropriazione di ciò che più mi corrisponde è stato straordinariamente splendido e importante. In fondo a quelle tremila e passa pagine, in fondo a questo fantastico e infinito romanzo, Marcel dice proprio questo: non abbiate paura della sofferenza, non abbiate paura dei vostri sbagli, non temete il dolore. Perché quella sofferenza, quegli sbagli, quel dolore, quella vita che non vi appartiene, siete voi, proprio voi, anche se non riuscite a riconoscervi. È quasi sempre necessario staccarvi da voi stessi per ritornare a ciò che siete. E il capolavoro non è una vita senza sbagli, non è una vita senza sofferenze. Il capolavoro è il coraggio di ricercare tutto il tempo perduto, metterlo insieme e alla fine ritrovarlo, questo tempo. E ritrovando il tempo, ritrovare voi stessi. E alla fine guardarsi una mattina allo specchio e dire senza abbassare lo sguardo: “esisto e sono io”.
Grazie Marcel.

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