La parola stupro esiste

C’era una volta, in un paese vicino vicino, Laura, una bambina continuamente braccata, inseguita e catturata da un orco.
Un orco che aveva il nome e il cognome di suo padre.
Per anni nessuno si era accorto di nulla e Laura non aveva mai parlato. Le facevano male, quelle continue violenze, ma quell’orco era suo padre e lei pensava che se faceva in quel modo qualche ragione ci doveva essere. Che sicuramente, se le faceva così male, era perché aveva fatto qualcosa di sbagliato e doveva essere punita.

Poi però qualcosa era cambiato.
Troppo dolore, troppe lacrime. E soprattutto troppo orco quell’uomo, anche se aveva il nome e il cognome di suo padre.
Qualcuno si era finalmente accorto di cosa succedeva tra quelle mura e Laura, che non era più una bambina e aveva ormai 16 anni, era stata portata via, messa in una grande casa piena di altri bambini e ragazzi perseguitati da orchi e da altri mostri.
Una grande casa che i grandi chiamavano “comunità”.

In comunità Laura aveva creduto di rinascere.
Soprattutto perché aveva trovato, in una delle educatrici, quelle spalle larghe e adulte su cui appoggiarsi, quel punto di riferimento che non aveva mai avuto.
Poi però di colpo anche quell’educatrice, anche quelle spalle larghe e adulte di cui si fidava, si era trasformata in orco.
Un orco ancora più terribile di quello con il nome e con il cognome di suo padre.
Un orco che prima l’aveva braccata, inseguita e catturata. E che poi l’aveva offerta agli occhi, alle mani e alle bocche di altri orchi.
E di nuovo, come quando era bambino, nessuno aveva visto niente e lei, Laura, per paura non aveva parlato.

Poi era arrivata la paura che quelle violenze avessero generato un bambino.
Non era vero, ma quei giorni d’angoscia avevano spinto Laura a parlare e a raccontare tutto.
A una persona che, finalmente, non si sarebbe mai trasformata in orco.
E dopo il coraggio del racconto, erano venute le denunce.
E tutti gli orchi erano stati assicurati alla Giustizia.

In questa tetra fiaba dell’orrore l’unica cosa inventata è il nome della protagonista.
Il resto, purtroppo, è tutto vero.
Una fiaba tragicamente reale a cui, oltre tutto, manca il lieto fine.
Perché una serie di processi lumaca ha fatto in modo che tutti i reati siano caduti in prescrizione e che quindi tutti i colpevoli non possano più essere perseguiti.
Dopo l’ovvia condanna alla “banda degli orchi” al termine del processo di primo grado (per il quale, nonostante fosse con rito abbreviato, ci sono voluti ben cinque anni), i colpevoli hanno fatto ricorso in appello. Scontato che l’appello confermasse la condanna, ma questa condanna è arrivata l’anno scorso, cioè quattordici anni dopo la denuncia della ragazza, con i reati di “violenze singole” ormai prescritti.
Restano i reati di “violenza di gruppo”, che cadranno in prescrizione il prossimo 31 dicembre. Visto che sul ricorso per questi reati la Cassazione deve ancora pronunciarsi, mancano i tempi tecnici per concludere – e soprattutto condannare gli imputati in via definitiva.
Perciò anche le accuse di violenza di gruppo decadranno.
Non perché i reati non sono stati commessi, ma perché i tempi della giustizia sono completamente opposti a quelli del più elementare buonsenso. E della più elementare umanità.

Resta una ragazza, oggi trentaduenne, di cui ben presto ci dimenticheremo.
Una ragazza che non solo dovrà affrontare e combattere per sempre i fantasmi e gli incubi di un’infanzia e un’adolescenza strappata via dalla violenza degli orchi, ma anche il peso di un’ingiustizia assurda che lascia quegli orchi tranquillamente a piede libero.

Perché la parola stupro esiste. Esiste senz’altro.
È la parola giustizia che, troppo spesso, svanisce nel nulla.

#resistenzeRiccardoLestini

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