Un insegnante disordinato

In una caldissima serata di fine giugno una cara collega mi ha chiesto, senza malizia e con sincero interesse, quale fosse il mio metodo di insegnamento. Non ho saputo rispondere e non so rispondere nemmeno oggi, che mi sorprendo a frugare tra i libri alla ricerca di qualche spunto interessante da proporre per il nuovo anno ormai alle porte. Ma come sempre è un frugare confuso, caotico, senza una struttura precisa, senza binari in cui incanalarmi. Inutile: per quanto mi sforzi di cercarlo, io un metodo non ce l’ho e non credo che ce l’avrò mai. Sono geneticamente disordinato: nelle mie passioni, come l’insegnamento, procedo in maniera centrifuga, parto da quello che ritengo essere il nocciolo della questione e da lì mi allargo a macchia d’olio, per accumulo e senza schemi. In più stiamo parlando di scuola, un posto dove nessun metodo è realmente percorribile, dove l’unico metodo accettato e proponibile è il grigiore stanco e inutile propinato da almeno un secolo. Perché la scuola, da quella cattolica a quella liberale, da quella fascista a quella repubblicana, tollera e premia soltanto chi le si adegua. La scuola non mi è mai piaciuta. Non mi piaceva da studente e non mi piace da insegnante. Dovrebbe essere il luogo dello studio, ma non è mai stato così. “Studiare” è il verbo più bello del mondo, viene dal latino “studére”, che significa “essere desideroso di”. È un’etimologia che è stata letteralmente annientata da secoli di cattiva scuola. Studiare ha assunto il significato opposto: da verbo della passione è diventato verbo del castigo, della punizione, della pena. Come sarebbe potuto essere altrimenti in un luogo, la scuola appunto, capace di fabbricare soltanto metafore dell’orrore? “Bocciato”, come un birillo spazzato via dall’onda d’urto di una palla scagliata con violenza; “Respinto”, come un nemico, come un invasore sgradito; per non parlare poi delle particolarità dialettali: a Perugia si dice “segato”, a Firenze “steccato”, a Trieste addirittura “picconato”. Come è possibile amare un luogo così? Come è possibile, da insegnante, riuscire ad avere un metodo degno di questo nome? E come è possibile, da studente, amare lo studio? Eppure il vocabolario scolastico parla spesso, riguardo agli studenti “bravi”, di “attitudine per lo studio”. A guardare registri e verbali, ad ascoltare colloqui con famiglie e consigli di classe sentiamo spesso “il ragazzo è portato per lo studio”. Cosa significa? Che il mondo è diviso in due? Abili e inabili allo studio? Idonei e non idonei alla scuola? Ma se così fosse, a che serve la scuola dell’obbligo? Perché esiste? Forse è un mio difetto, ma non riuscirò mai a rassegnarmi all’idea di questa linea di demarcazione tra bravi e non bravi. I ragazzi non sono tutti uguali, anzi: sono ognuno completamente diverso dall’altro. E si tratta di differenze caratteriali, familiari, sociali, economiche, religiose e via dicendo. Ci sono ragazzi che arrivano a scuola già “bravi”, esattamente come il sistema scolastico vuole: saranno quelli coi voti più alti, portati per anni come esempio. Ma esempio di cosa? La scuola nella loro bravura ha ben pochi meriti: somigliavano alla scuola ancor prima di entrarci. Altri “ un po’ meno bravi” riescono comunque abbastanza in fretta a comprendere gli strumenti per adeguarsi e stare al passo con il gruppetto dei primi. Quelli “non bravi” invece, non capiscono e non si adeguano. E sono additati come “problemi”. È questo l’orrore più grande generato dalla scuola: tollera soltanto chi si adegua all’unico metodo accettato. Ecco perché non mi piace la scuola, perché non è in grado di capire le diversità, mentre la mia utopia è una scuola in grado si valorizzare ed esaltare le differenze dei ragazzi. La scuola così come è fa l’esatto contrario: cerca di uniformare e ridurre tutti a un unico pensiero. Chi si adegua è promosso, chi non si adegua è respinto, bocciato, segato, picconato. Ecco perché sono così ostile all’idea di un metodo. Ci vorrebbe un metodo per ogni alunno. Quando ho detto una cosa simile a un incontro ufficiale tra insegnanti, un collega poco più adulto di me mi rispose che non sarebbe stato possibile, e che inoltre un metodo diverso per ogni alunno avrebbe creato disparità di trattamento, preferenze, disuguaglianze. Invece il metodo unico mette tutti sullo stesso piano. Ma don Milani scriveva che “non c’è razzismo peggiore di fare le parti uguali tra diversi”. Lo scriveva nel 1966. Evidentemente sono parole di cui ancora oggi abbiamo bisogno. Don Milani scriveva anche “l’obbedienza non è più una virtù”. La scuola, non essendo il luogo dello studio (inteso nel suo significato originario), è soltanto il luogo dell’obbedienza. I “bravi”, quelli di cui si dice che “sono portati per lo studio”, la scuola li classifica tali non in base alle loro competenze, alle loro attitudini, alle loro specifiche capacità, ma in base alla loro obbedienza. Sono bravi quelli che fanno i compiti assegnati, che studiano quel che gli si dice di studiare, che memorizzano formule, date, che sono in grado di riproporre, il giorno successivo, le stesse parole dell’insegnante. C’è un verbo molto in uso nel gergo scolastico: “eseguire”. Agli studenti si chiede semplicemente di “eseguire”, compiti e codici comportamentali. In sostanza, lo studente modello è quello che esegue gli ordini. I “bravi” sono quelli che stanno composti, quelli che non danno cenni d’insofferenza o cedimento durante le spiegazioni, quelli che non si stirano sul banco, quelli che non urlano, non mangiano durante la lezione, non mandano bigliettini ai compagni, non architettano scherzi, non cercano di uscire dallo schema imposto dal professore. Si promuovono gli studenti che si adeguano, si respingono quelli che risultano un problema al modello unico. La scuola preferisce l’obbedienza all’intelligenza: la bravura del ragazzo è direttamente proporzionale alla sua capacità di sopportazione. I cosiddetti “bravi” sono quasi sempre anonimi, grigi, immobili. Non sono così realmente, hanno solo capito il trucco: nascondono se stessi e mostrano soltanto quello di cui la scuola ha bisogno, il loro grigiore. I cosiddetti “non bravi” invece sono irrequieti, feroci, a volte arroganti e maleducati. Anche loro non sono così realmente. È semplicemente la loro risposta a chi si rifiuta a priori di capirli. Ma come sono realmente i ragazzi? Cosa c’è dietro quelle maschere che la scuola gli impone di portare? Non lo so. Non ho la pretesa di fare discorsi così ampi. Posso però parlare delle decine e decine di alunni che ho avuto io in sorte in cinque anni scarsi di insegnamento. Di loro, nel mio non metodo, ho scoperto cose splendide, cose fondamentali che la scuola di rifiuta di sapere, o peggio ancora ritiene ininfluenti ai fini del profitto. Ad esempio un mio alunno scrive canzoni, magari non ricorda esattamente la linea di confine tra romanticismo vero e proprio e tardoromanticismo, ma ama la poesia e cerca di tradurla nella sua vita quotidiana componendo brani. Non è più importante questo di valanghe di nozioni mnemoniche? Un altro alunno, usando termini non completamente appropriati, aveva difficoltà a parlare di Montale perché le sue parole “avevano troppo a che fare con la sua vita”. Un altro ancora vuole mettere da parte soldi per viaggiare in tutta Europa. Un’altra mia alunna ha il sogno di andare a studiare a Londra, un’altra si è invaghita di Freud e vuole capire cosa sia realmente la psicanalisi. Potrei farne centinaia di questi esempi. Sono piccoli tesori, che la scuola avrebbe – secondo me – il dovere di valorizzare, capire, incoraggiare. Purtroppo, sa solo mortificarli. Non ho mai chiesto ai miei alunni che mi ubbidissero. Né ho preteso da loro risposte. Da loro ho voluto soltanto domande. Domande, domande e domande. A cui spesso non ho saputo rispondere se non con altri dubbi e altre domande. Perché l’intelligenza è un accumulo di domande, mentre l’ottusità è la cieca pretesa di risposte, spesso banali e deludenti. Forse sbaglio. Forse sono un pessimo insegnante. Li confondo, li spingo a parlare laddove gli si chiederebbe silenzio, a contestare dove si pretenderebbe il tacito assenso, a essere se stessi dove si vorrebbe la finzione, a innamorarsi dove si vorrebbe eliminare i sentimenti. Gli dico che va bene mentre la scuola gli urla che va male. Mi illudo di fare una scuola diversa mentre la scuola non cambia e non cambierà mai. Sicuramente sbaglio. Ma finché sbaglio insieme a loro, e non contro di loro, sento di essere nel giusto.

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