L’onda lunga del terrorismo
È difficile, per me, nato nel 1976, parlare degli anni di piombo. Tranne alcuni sfocati riflessi d’infanzia non ne ho memoria diretta: tutto quello che so, quello che posso essere riuscito a capire di quel dramma di sangue lungo dieci e passa anni, l’ho ricostruito a fatica, componendo e scomponendo mosaici con frammenti raccolti in mezzo a un deserto di silenzio e censura.
Per questo credo che qualsiasi discorso possa (e debba) partire da qui, da questo deserto, dalla mia, e nostra, ignoranza.
Per tutti gli anni settanta e fino a buona parte degli ottanta, in Italia c’è stata una guerra che, ancora oggi, si fa fatica a riconoscere come tale. Una guerra feroce e sanguinaria che ha contato decine, centinaia di morti, che è entrata nelle viscere più profonde delle persone, che ha diviso e spezzato famiglie, che ha costellato e tempestato di lutti la quotidianità della gente.
Una guerra civile insomma.
Eppure le istituzioni si sono sempre rifiutate di parlare di guerra civile, hanno sempre rifiutato lo status di prigionieri politici ai suoi tragici e tristi protagonisti. Ma soprattutto, hanno sempre rifiutato di indagarne le cause e le motivazioni più profonde e dolorose, offrendo di conseguenza una versione ufficiale sbrigativa e superficiale, per non dire comoda e rassicurante.
Perché?
Oggi come allora i brigatisti, i nappisti, i terroristi neri dei NAR, vengono ancora presentati come marziani, extraterrestri provenienti da chissà quale altro mondo parallelo. Come allora, anche oggi, ci si rifiuta di guardarli in faccia. Negli anni settanta e ottanta lo Stato si rifiutò di riconoscere l’esistenza di una (se pur minima) parte di società che, al dialogo, aveva preferito la clandestinità, la violenza dichiarata, la lotta armata. Pensare a quei gruppi come fuori dal reale fu una tragica scorciatoia, un espediente per negare uno stato debole, una società debole, una politica debole.
Ma dieci anni di sequestri, esecuzioni sommarie, sparatorie, rapine e stragi, non nascono certo in una società sana, non nascono certo tra le pieghe di uno Stato forte e risoluto. Ammettere l’esistenza di una guerra, per lo Stato avrebbe voluto dire guardarsi prima di tutto dentro, indagare le proprie storture, ammettere che il terrorismo altro non era che la definitiva degenerazione di una società dilaniata, distrutta da conflitti sociali: una distruzione che aveva creato l’humus ideale per l’eversione armata degli opposti estremismi. Un’eversione che, per di più, almeno negli anni precedenti al sequestro Moro, ebbe un consistente e decisivo tacito assenso (se non appoggio) di parte della società civile. Inutile e assurdo negarlo: senza quell’appoggio, il terrorismo non sarebbe sopravvissuto così a lungo, mentre oggi (penso alle cosiddette “Nuove Brigate Rosse”) non ha futuro proprio per la mancanza di quell’assenso.
La più feroce campagna negazionista, in questo senso fu quella del PCI nei confronti delle Brigate Rosse. Per anni (e in parte ancora oggi) i dirigenti del PCI tirarono in ballo complotti, manovre segrete dall’estero, infiltrazioni: si tentò con ogni mezzo di rifiutare che quelle bande armate che stavano mettendo a ferro e fuoco l’Italia fossero in qualche modo riconducibili ad un’ideologia di sinistra. Anche in questo caso, ci si rifiutò di guardare dentro se stessi, di scavare nel profondo e offrire al contrario una visione della storia pacificata e rassicurante, negare che le Brigate Rosse rappresentavano la stortura perversa e violenta dell’ideologia comunista (l’unica ad ammetterlo fu Rossana Rossanda, col celebre articolo “L’album di famiglia”).
Da quegli anni atroci e violenti l’Italia ne è uscita nel peggiore dei modi: a suon di processi sommari, frammentari e superficiali. E soprattutto attraverso il sistema agghiacciante dello sconto di pena proposto ai pentiti. Uno stratagemma altrettanto perverso, che come unico risultato ha ottenuto ulteriore violenza, ulteriore lacerazione sia nella sfera pubblica e privata dei terroristi, sia in quella delle vittime: pentimenti, ritorsioni, ingiustizie d’ogni sorta.
Si è in sostanza uccisa la storia materiale e reale a favore di una cronaca confusa ed edulcorata.
Ho letto con dolore un articolo della figlia di Walter Tobagi (una delle innumerevoli vittime della follia omicida delle Brigate Rosse) apparso qualche giorno fa su “Repubblica” in merito all’ultimo film di Renato De Maria, dedicato alla storia del gruppo terroristico Prima Linea. Quello che lamentava la Tobagi era proprio la mancanza della storia reale e di tutte le sue contraddizioni. Perché, si chiedeva in sostanza la figlia della vittima, sembra impossibile in Italia ricostruire in modo sincero, onesto e veramente doloroso quegli anni? In Italia o si opta per la splendida poesia alla Bellocchio (vedi “Buongiorno notte” dedicato al rapimento Moro), dichiaratamente aliena dalla ricostruzione storica, oppure, ed è il caso del film di De Maria, si offre una visione schematica, un inutile e irreale gioco di maschere e tipi fissi: il terrorista dissociato e ottuso, la vittima inconsapevole, lo Stato silenzioso e via dicendo.
Ma non è un problema cinematografico. È questo senz’altro un problema assolutamente italiano. L’Italia è un paese assolutamente incapace di scrivere la propria storia, in quanto non vuole e non sa guardarsi dentro, riconoscere le proprie colpe, sottoporsi a drammatici processi collettive, a tragiche analisi. L’Italia sa soltanto mettere una pietra sopra le proprie tragedie e cancellare la storia. Così come per il ventennio fascista e soprattutto per la tragica guerra civile ’43-’45, anche per gli anni di piombo restano chiusi innumerevoli armadi della vergogna.
Sempre la Tobagi citava certi film tedeschi sugli anni di piombo in Germania come veri esempi da seguire. Ma la Germania è un paese che negli anni e nei decenni, ha saputo frugare nel proprio passato, ha saputo processarsi, ha saputo piangere sulle proprie colpe: ha indagato sul perché Hitler andò al potere legittimato dal voto di milioni di tedeschi. E ha saputo andare avanti.
In Italia, dove i politici sanno solo invocare la propria impunità, anche i cittadini, come singoli individui, come popolo e come nazione, riescono soltanto a sentirsi innocenti, sempre e comunque, scevri e alieni da qualsiasi colpa possibile.
Ecco perché l’acceso dibattito di questi giorni sull’estradizione al terrorista Cesare Battisti ha davvero poco senso. Io sono fermamente convinto che qualsiasi individuo colpevole di qualunque reato non debba e non possa sfuggire alla giustizia. Non è quindi la necessità di processare Battisti a essere in discussione. È il dibattito in sé, la modalità del processo che verrà. Perché e per cosa si vuole estradare Battisti? Perché e per cosa sarà processato? Chi sa rispondere a questa domanda? Lo si vuole processare per i quattro delitti a lui ascritti? Benissimo, ma è possibile processarlo per quattro omicidi slegandoli dal contesto che li generò? Non credo. Si vuole quindi processare Battisti per processare gli anni di piombo nella loro totalità? Dai dibattiti di questi giorni sembra proprio così. Ma come è possibile processare un’intera età storica e sociale di cui ci si è sempre rifiutati di capirne le cause, un’intera età storica e sociale che si è metodicamente scelto di seppellire e dimenticare nel peggiore dei modi? E se il processo Battisti si trasformasse in una sorta di “regolamento dei conti”, di “contentino” alle fin troppo vituperate famiglie delle vittime, e terminasse con una pena esemplare e smisurata, cosa avremmo ottenuto? Non lo so, ma di certo non l’immagine di una società sana e consapevole. E soprattutto, cosa fare con le decine di terroristi mandati in libertà esclusivamente per confessioni estorte in cambio di favori e sconti di pena?
Non so, non so davvero. Mi vengono solo in mente le splendide parole di Cesare Pavese: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?” Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”