Non sono io l’anomalia

Era la primavera del 2006. L’allora Unione di centro-sinistra (all’epoca esisteva ancora il trattino) si apprestava a celebrare la vittoria più inutile e penosa della storia repubblicana, un sole timido faceva da preludio ad un’estate (mondiali a parte) non troppo generosa e nei cinema usciva la (finora) ultima fatica di Nanni Moretti: “Il Caimano”, film-pamphlet grondante rabbia e indignazione a ogni sequenza. La pellicola si chiudeva con l’immagine vitrea (degna d’un terribile Iago postmoderno) del Caimano che, condannato al carcere e all’interdizione dai pubblici uffici per corruzione, incitava “il popolo” a ribellarsi contro “la dittatura delle toghe rosse”. E “il popolo” che prontamente rispondeva linciando il capannello di giudici e incendiando a suon di molotov il Palazzo di Giustizia. All’epoca quasi nessuno seppe (né volle) capire. “Sarà un boomerang elettorale”, disse la più parte della classe dirigente del centro-sinistra; “un film orrendo” sentenziò il Caimano, quello vero; “Moretti è un pessimista visionario”, sibilarono trasversalmente i più d’ogni credo e ideologia. In realtà Nanni Moretti con quel film aveva semplicemente fatto il suo mestiere d’intellettuale: guardarsi attorno, interpretare la realtà e restituirla sotto scomoda forma d’arte, aliena da qualsiasi calcolo politico e/o ideologico. Ma si sa, oggi come oggi, nell’Italia mefitica e putrescente in cui viviamo, gli intellettuali non hanno più nemmeno la dignità delle Cassandre: sono come le figurine dei calciatori baffuti e barbuti degli anni Settanta, reperti muti di un mondo ormai estinto, inutili e, in certi casi, nemmeno belli. 
Ieri sera però, 27 ottobre 2009 (tre anni e mezzo dopo i fatti appena narrati), Berlusconi intervenendo in diretta a “Ballarò” ha tuonato: “Non sono io l’anomalia, l’anomalia sono i pm comunisti e i giudici rossi di Milano!”. 
Fermi tutti. Riavvolgiamo il nastro e torniamo al 2006, torniamo al “Caimano”. Nella penultima sequenza, precedente a quella descritta prima, il Caimano in macchina, mentre si reca in tribunale per ascoltare la sentenza, si abbandona a un lungo soliloquio nel quale, tra l’altro, borbotta: “Non sono io l’anomalia…non sono io l’anomalia…l’anomalia in Italia sono i comunisti, i giudici, i magistrati…”. 
Viene da chiedersi: chi ha copiato chi? Moretti, che alla fine tanto visionario non è e ha soltanto riportato fedelmente un ritornello ossessivo che il tre volte premier ripete da quindici anni, oppure Berlusconi che, ispirato dal “Caimano”, ha finito per parodiare se stesso? Non importa poi tanto: in un’Italia così ridicola le risposte non servono più, c’è solo un susseguirsi immemore e inebetito di fatti grigi e senza gloria, dove ognuno finisce per essere la caricatura di qualcos’altro, dove tutto sembra copiaticcio informe, riproposizione ossessiva giocata al ribasso, e dove qualsiasi autenticità perde di significato e svanisce sotto cumuli d’escrementi travestiti da parole volgari. Anch’io sinceramente, mentre scrivo, ho la terribile sensazione di parodiare me stesso. 
Tutto diventa grottesco, ogni cosa si trasfigura. E allora non si fa nemmeno caso che, nel sequel del suo show telefonico a “Ballarò”, il premier prenda a parlare di sé in terza persona, gridando con voce strozzata: “Da quando Berlusconi è sceso in politica ha subito 103 processi…103 processi! Allora mi chiedo: Silvio Berlusconi era davvero l’imprenditore più criminale del mondo? O lo sono i giudici?”. E pensare che gli ultimi personaggi a parlare di sé in terza persona furono Napoleone e Luigi XIV (capito? Il Re Sole, quello che diceva “l’ètat c’est moi”). Allora non si fa nemmeno caso che, non appena uno spaesato Floris provi mestamente (e onestamente) a fare il proprio lavoro (che, tanto per elementare chiarezza, è quello del giornalista, cioè porre domande, questioni, stimolare interventi, dibattiti…), il premier lo fulmini letteralmente, neanche fosse papa Innocenzo III davanti agli eretici Valdesi: “ORA io parlo e POI le mi fa le domande. ORA NON SONO A SUA DISPOSIZIONE”. E che dopo aver pronunciato queste, diciamo pure vergognose e inaccettabili parole, aggiunga: “Floris, la televisione non è sua!”. 
E se l’inarrestabile digradare nel grottesco ci impedisce di far caso a simili oscenità, è quasi normale che anche l’indignazione si riduca a una voce sfiatata e sfinita, come quella di un’esausta Rosy Bindi che, come recitasse un solitario rosario per morti di cui non frega niente a nessuno, finisce per borbottare tra sé: “Basta…basta…basta…”. 
Ma purtroppo, non basta per niente. Il grottesco trasfigurante non si esaurisce con e in Berlusconi, ma da Sua Emittenza, neobasilisco velenoso e informe, si estende a macchia d’olio in ogni dove. Pensiamo a Marrazzo: in quest’immenso e desolante teatrino dell’assurdo che è l’Italia, non ci si indigna per il fatto che quattro carabinieri (sottolineo carabinieri, cioè agenti delle forze dell’ordine, rappresentanti in divisa dello Stato e della legalità) si trasformino in aguzzini di un intero giro di prostituzione in un quartiere romano per ricattare personaggi pubblici ed estorcergli denaro, ma si riesce solo a riversare attenzione morbosa, malata e gossippara sulla quotidiana miseria umana di un padre di famiglia amante delle scappatelle a pagamento con i transessuali. Come il caso Berlusconi-D’Addario: non importa l’abuso di potere, la promessa di carriere politiche dietro favori sessuali, ma la questione centrale è “Berlusconi quella notte ha preso o no il viagra?”. 
Siamo nel pieno di un dramma di Beckett: lo scenario è più tragico di “Aspettando Godot”, più caustico di “Finale di partita”, più insensato di “Giorni felici”. E nei drammi di Beckett le risposte non ci sono. Nei drammi di Beckett, mentre scoppia l’apocalisse, mentre per fare politica occorre prostituirsi, mentre le forze dell’ordine si trasformano con disinvoltura in strozzini, i personaggi parlano e sparlano di niente, si preoccupano di erezioni sessuali e trite trasgressioni. 
Nei drammi di Beckett a questo punto potrebbe entrare un altro personaggio, grigio mediocre e insensato, che però, in quell’atmosfera da circo tragico e decadente, riuscirebbe senza sforzi a monopolizzare la scena. È quel che accade con Rutelli, uno che trent’anni fa, da puro delfino pannelliano, libertino e libertario, si incatenava ai cancelli in difesa dei diritti, dell’aborto, del divorzio, della laicità, della libertà sessuale e che poi, non si sa in seguito a quale travaglio interiore, si convertì all’ambientalismo, passò con i verdi, diventò sindaco di Roma e che poi, fulminato sulla via di Damasco, arrivò in ginocchio a San Pietro, si cosparse d’incenso, si frustò col cilicio, vietò il gay pride, si dichiarò neocrociato e che poi, come San Francesco, dichiarò di aver mangiato pane e cicoria per quattro anni, fondò la Margherita, se ne andò penitente per quaranta giorni nel deserto assieme a Santa Binetti e infine, cercò invano di scacciare il demonio, che aveva le fattezze del ghibellino Bersani e la voce acre del togliattiano D’Alema. Solo in un dramma di Beckett, un simile personaggio potrebbe monopolizzare per giorni il dibattito politico. Al contrario, in un paese normale, i cittadini raccoglierebbero firme per chiedere la revisione della legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi. 
Ma questo non è un paese normale. Questa è l’Italia, questo è il regno del grottesco dove, alla fine, le uniche parole intelligenti le ha dette proprio Rosy Bindi: basta, basta, basta. 

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