Un pezzo fondamentale della mia vita … tipo le cose che scrivo, come le scrivo e chissà perché le scrivo…(un post lunghissimo, solo per persone davvero tenaci)

È andata che nelle cuffie avevo Alice – quella di De Gregori, e mi sono messo a scrivere. Magari mi sarei messo a scrivere lo stesso, anche con un’altra canzone, perché ero in treno e il viaggio era lungo, e quando sono in treno e il viaggio è lungo io scrivo sempre. E di brutto (e chissà perché questa storia di Alice l’ho già raccontata tante volte e invece il fatto che fossi in treno e quanto sia importante il treno nel mio modo di scrivere e in tante cose che ho scritto non lo dico mai… che addirittura mi piacerebbe scrivere un romanzo intero tutto ambientato in treno, ma va be’, facciamo che di questo se ne riparla… ).
Comunque, come è come non è, nelle cuffie era Alice che suonava. Una canzone che già tanto tempo fa – e intendo proprio un pacco di tempo fa, tipo più di vent’anni fa, a inizio università – mi aveva ispirato un’idea per una specie di romanzo (e anche di questa cosa, come del treno, non ne ho ancora mai parlato, ma in questo caso mi è proprio tornato in mente solo adesso, scrivendo).
Si chiamava – la specie di romanzo di venti e rotti anni fa – qualcosa tipo “Alice bimba felice”, e doveva essere una serie di storie (quattro, forse cinque, con esattezza adesso non ricordo) che procedevano in parallelo durante una qualsiasi giornata, e ogni blocco temporale con tutte le storie narrate in parallelo si chiudeva con questa Alice, una bimba piccola (tipo cinque-sei anni) che saltava e giocava ignara di tutte le altre storie che le giravano intorno (proprio come la Alice della canzone che guarda i gatti mentre una serie di vite e storie le si intrecciano intorno). E tutti i paragrafi che la riguardavano iniziavano nello stesso modo “e nel frattempo Alice, bimba felice…”, e via discorrendo. Perché tutto quanto, anche le 4-5 storie in parallelo, era organizzato in brevi paragrafi…
Ma com’è che sta cosa di questa specie di romanzo di venti e rotti anni fa l’avevo totalmente rimossa e mi torna in mente solo adesso costringendomi a scrivere altra roba – ma tutt’altra roba – rispetto a quel che volevo scrivere originariamente, che ormai non posso nemmeno tornare indietro e ricominciare perché l’ho totalmente scordato?
Comunque questa specie di romanzo – Alice bimbafelice – non solo non lo finii, ma ne scrissi la miseria di 9-10 cartelle. Forse meno. Sicuramente non di più. Non un’opera incompiuta, ma direttamente un’opera non scritta. E tutto questo accadde prima che avessi un pc, quindi quelle poche cartelle le scrissi con la mia macchina da scrivere Olivetti. Se esistono ancora (incredibile comunque, che una roba totalmente dimenticata ritorni fuori di colpo in ogni dettaglio, tipo che ora mi vedo la cartellina celeste che conteneva i fogli di questo progetto abortito), sono da qualche parte tra le mie cose a casa dei miei. Cercherò.
Ad ogni modo, vent’anni e rotti dopo, riecco Alice. O meglio, in venti e rotti anni Alice l’avrò ascoltata un milione di volte, ma rieccola a ispirarmi una storia. Che davvero non ci avevo mai pensato – credetemi, sto scrivendo traducendo in diretta pensieri stupefatti – ma adesso che ho riscoperto sta storia di “Alice bimba felice” mi tocca concludere che un’idea, un embrione, un “qualcosa”, se ne è stato lì sopito per un quarto di secolo aspettando il momento di rispuntare fuori.
Pazzesco.
Quindi, dicevamo, riecco Alice vent’anni e rotti dopo. Fine marzo. In treno. Firenze-Roma, ma col regionale che ci mette tre ore e mezzo, perché era sabato e mi ero scordato di fare il biglietto, sull’alta velocità non c’era più un posto. Stavo andando al quartiere Monteverde, proprio sopra Trastevere, a presentare il mio romanzo “Il Piccolo Principe è morto” – uscito una manciata di settimane prima – in una splendida libreria indipendente.
Pensavo alle passeggiate. Perché era mattina, sarei arrivato prima di pranzo e avrei avuto molte ore di beata solitudine prima della presentazione. C’era uno splendido sole marzolino, e non vedevo l’ora di mettermi a girellare, che era più di un anno che non tornavo a Roma.
Poi Alice. E questo racconto che mi arriva, mi si impone. Che devo iniziare a scrivere per forza, proprio mentre il regionale supera Orvieto e inizia a puntare Attigliano. Un racconto sulle passeggiate, che passeggiare è sicuramente nella top ten delle cose che amo di più nella vita. Su un tizio che passeggia. Che passeggia per Firenze, proprio come me. Che Firenze è la mia città e il mio grande amore (pure lei sta nella top ten), ma mica ci sono nato. Ci sono arrivato a 18 anni, piombato dentro una freddissima domenica di fine ottobre del 1995, assurdo vento gelido da neve, quattro coinquilini sconosciuti e il cinema sotto casa che faceva “I buchi neri” di Pappi Corsicato. E Firenze, la mia città, a partire da quella gelida domenica di ottobre, me la sono presa passeggiando. Incessantemente. Come un ossesso. Dromomania al cubo. Ho passato giornate intere, dalla mattina alla sera, a percorrere Firenze a piedi, a scoprirla in ogni suo anfratto. Ancora oggi che la conosco a memoria passo ore e ore a passeggiarci dentro.
E allora, tra Orvieto e Attigliano, inizio a scrivere questo racconto su un tizio che passeggia a Firenze. Che non sono io, ma ovviamente mi somiglia parecchio (e come si fa a scrivere qualcosa che non ti somiglia?); da subito, che mi somigli un po’ o tantissimo, voglio che abbia il ritmo e l’andamento delle mie passeggiate, quella stessa assenza di pianificazione, imprevedibilità, mancanza di programma. Che vada, senza bisogno di andare per forza da qualche parte. Tradotto, che non abbia una trama in senso classico, ma che segua la volubilità degli sguardi durante le passeggiate, che lascino perdere d’improvviso un qualcosa o un qualcuno osservato e desiderato per ore e che di quel qualcosa o qualcuno non se ne sappia più niente senza troppe domande, perché ormai l’attenzione è altrove.
Sembra semplice, invece è un casino, perché la volontà è quella di raccontare responsabilmente l’irresponsabilità. Sì, quest’ultima cosa un giorno la spiegherò. Ora la lascio così come mi è venuta, stronza e a effetto.
Va a finire che in tarda mattinata come da copione passeggio per Trastevere, pranzo nella mia trattoria preferita, poi vorrei continuare il vagabondaggio ma il racconto, che ha preso totalmente possesso dei miei pensieri, me lo impedisce. Passo così il pomeriggio spetasciato a Villa Pamphili, a prendere appunti. In quelle ore a quel personaggio che passeggia per Firenze e che mi somiglia tanto gli metto in mano una videocamera. Perché lo sguardo delle mie passeggiate è totalmente cinematografico e perché il cinema è un altro grande amore, un altro elemento della famosa top ten.
Mentre vado in libreria decido che il racconto avrà un taglio tutto cinematografico. E capisco di essere fottuto, che quel racconto egemonizzerà il mio futuro prossimo, che sono così preso che non avrò pace fino a che non lo avrò finito.
Torno da Roma con sette pagine di quaderno fitte di appunti. E con una frase, “c’è un film dietro ogni mattina”, che sarà l’incipit del racconto.
Ho poco tempo. Anzi, proprio non ho tempo. La bimba, la scuola, il romanzo che sta avendo un successo inatteso e gli impegni che si moltiplicano ogni giorno oltre ogni mia aspettativa. Però, penso, è solo un racconto, ce la posso fare.
Qualche giorno dopo la trasferta romana il tizio che passeggia lo battezzo “il vecchio Bob”, mentre una notte di metà aprile, dopo un’altra presentazione e soprattutto dopo una cena colossale e avvinazzatissima con un vecchio amico, tutti gli appunti mi si dispongono ordinatamente in quella che in situazioni normali sarebbe una trama, ma in questo caso chiamo trama per pura convenzione, visto che questo racconto non dovrà avere trama.
Film senza trama. Passeggiata fiorentina. La giornata senza trama del vecchio Bob. Un giorno.
Sono i titoli provvisori che a ridosso di Pasqua sono scritti a penna sulle poche pagine stampate. Dove brandelli sparsi di racconto si alternano ad appunti, digressioni, dialoghi con me stesso. E che in sostanza dicono che c’è questo vecchio Bob che abita dalle parti di Santa Croce, esce la mattina all’alba con la videocamera e si mette a filmare Firenze. Così, come capita e come viene, senza sceneggiatura, lasciandosi guidare dalle suggestioni e dagli incontri casuali. Incontra una serie di personaggi: gli appunti a margine citano Red, uno spazzino delle Piagge che smadonna; Daniela la Bella, una trentenne statuaria e desiderata da mezzo mondo, che ha un bar in San Lorenzo e rincontra Matteo, una vecchia fiamma dell’università; Gloria e Pietro, inchiodati all’ospedale pediatrico a vegliare il figlioletto devastato da una malattia incurabile; Emma, che ha una storia di sesso con uno scrittore famoso, e s’illude possa trasformarsi in una storia d’amore; Ketty che batte i viali e viene dall’est.
Il vecchio Bob, dicono gli appunti, incontra questi tizi (e altri da aggiungere), li incontra e le loro storie gli arrivano nel loro pieno svolgimento quotidiano, non iniziano e non finiscono. Più avanti, negli stessi fogli, cambio idea: non sono i loro nomi quelli là, ma i nomi che gli dà il vecchio Bob. Lui li vede, immagina i loro nomi e la loro storia. Quindi è un racconto sulle sue fantasticherie interiori per le strade di Firenze. Che inizia e abbandona. Perché nel frattempo lui in autobus vede una ragazza minuta e con gli occhi azzurrissimi. La battezza “la Perla”, se ne innamora disperatamente, la segue tutto il giorno perché è lei il film che cercava.
Finale tutto da decidere, concludono gli appunti.
Nelle pagine che si aggiungono nei giorni dopo Pasqua, entrano nuovi personaggi “fantasticati” da Bob: Lukas il senzatetto; Agnese un’altra prostituta; la banda di liceali Martino, Francesca, Samanta senz’acca, Ilaria e Costanza; Tessa che aspetta un figlio. Su Tessa che fa il test di gravidanza, in mezzo ai fogli stampati, ce n’è uno a quadretti dove è descritta tutta la scena, con accanto il testo di “Amore disperato” di Nada. Il foglio a quadretti reca la data del 24 aprile.
L’ultimo foglio di appunti dice che no, non saranno fantasticherie di Bob, ma tutte quelle storie saranno reali, da intramezzare ai suoi vagabondaggi cinematografici.
Poi niente.
Un mese dopo la folgorazione sul treno per Roma, a parte l’incipit “c’è un film dietro ogni mattina”, la scena di Tessa e varie parti slegate di Bob che passeggia e filma la Perla, del racconto non c’è altro. Non quaglia. Ma non è quel non quagliare che gira a vuoto (se dopo un mese di lavoro un racconto breve mi gira a vuoto, di norma lo cestino senza pietà). È un non quagliare dove mi sfugge qualcosa, un collante che, se lo trovassi, farebbe girare tutto e la storia si scriverebbe da sola.
L’uscita dall’inghippo ha una data e un luogo preciso: 4 maggio, treno Firenze -Pescara (già, ancora treno!), per andare poi a Chieti all’ennesima presentazione de “Il Piccolo Principe è morto”.
Inizio a scrivere una storia. Un’altra storia, un altro racconto che con Bob e tutto il resto non c’entra nulla, tranne che pure questa è ambientata a Firenze. Si tratta di un raccontino pulp ambientato nell’estrema periferia ovest fiorentina, che ha come titolo provvisorio “Le ultime 24 ore di Tommy lo stronzo”. Scrivo e scrivo. Sono così ispirato che, penso, rischio di finirlo prima della presentazione. Ma all’altezza di Ancona, mi fermo. Rileggo le pagine scritte, le vicende di Tommy lo stronzo, del suo amico Ludovico lo sfigato, degli spacciatori di via Pistoiese, di Violante Baldi Papini detta Culo Parlante. Mi piace da impazzire questo raccontino. Solo che c’è un problema: capisco che non è un raccontino, ma un pezzo della storia di Bob e di tutti gli altri. Meno male ho dietro tutti gli appunti. Li prendo dallo zaino, li rileggo e sì, ‘orco Giuda, si incastra tutto alla perfezione.
Così, mentre il treno si incolla all’Adriatico inseguendo la A14, finalmente capisco tutto, finalmente arriva la folgorazione definitiva e risolutiva: tutto quell’intreccio di roba non era un racconto breve, ma un romanzo, dove si intrecciano – in una qualunque giornata d’inverno, a Firenze – una miriade di storie e personaggi, di cui il vecchio Bob è idealmente il filo conduttore.
Un romanzo. Cristosanto, ho un nuovo romanzo tra le mani. Con le mani che mi tremano d’eccitazione e adrenalina, disegno uno schema che poi non è uno schema, ma una palla al centro del foglio dove c’è scritto Bob e attorno tutte palline con i nomi di tutti gli altri personaggi e di tutte le altre storie Quelle che c’erano già più l’ultima arrivata, quella di Tommy lo stronzo. Di colpo ho tutto chiaro in testa, le immagini si susseguono e si incastrano.
Arrivo a Pescara in un stato di eccitazione difficile da raccontare. Sono così concentrato sul romanzo che vado a mangiare e mi dimentico di mangiare. Io sono convinto di averlo mangiato, l’hamburger, ma mentre pago il cameriere mi chiede se deve prepararmi un bag. Me lo faccio preparare e mangio, stavolta davvero, al b&b dove alloggio. Ho ancora un paio d’ore prima di incontrare Emiliano e andare insieme a Chieti. Dovrei riposare, e quasi me lo impongo: è uno di quei momenti in cui la mente sta producendo troppo, così tanto che si rischia di non riuscire a fermare niente. Mi sdraio sul letto, ma di dormire non se ne parla.
In quelle due ore, rigirandomi nel letto con gli occhi sbarrati, decido che non è che avrà il ritmo di un film, il mio nuovo romanzo, ma lo scriverò proprio come fosse un film, con una serie di piccole scene che si susseguono una dopo l’altra.
Poi Emiliano, Chieti, la Libreria De Luca, Cinzia che fa da moderatrice, una bellissima presentazione e a seguire una cena indimenticabile: comitiva splendida, arrosticini a go-go e soprattutto una genziana come ammazzacaffè che per me ed Emiliano diventerà molto più che leggendaria.
Torniamo a Pescara e saluto Emiliano e gli altri che è mezzanotte passata. Devo alzarmi alle cinque in punto, praticamente mi tocca aprire la stazione centrale di Pescara, ma non ho altra scelta: il pomeriggio successivo la mia compagna lavora e non abbiamo nessuno che ci tiene Antonia, la nostra bimba, così devo essere a Firenze per pranzo. Inutile dire che devo dormire, ma il nuovo romanzo riprende possesso della mia testa, ritenendo superfluo il fatto che io sia stravolto di stanchezza. Mi vengono in mente altre cose che mi appunto e va a finire che mi addormento quando l’orologio segna quasi le tre.
Appena due ore dopo, come da copione sono sveglio. Una doccia veloce e sono in stazione. Due caffè in sequenza rapidissima e arriva il treno per Ancona. Ho gli occhi gonfi di chi è sveglio da sedici giorni, eppure non crollo, e come un drogato riprendo il malloppo e mi rimetto a lavorare. Aggiungo altri personaggi: Andrea Assennato, l’universitario fuori sede, e il Compagno Omero, storico comunista completamente impazzito. Li abbozzo e li tratteggio in poche righe, traccio una loro storia di massima, penso a come incastrarli con il resto.
Quando scendo ad Ancona, mentre faccio colazione al bar in attesa del treno per Foligno, decido che il romanzo inizierà alle 6 di mattina e finirà a mezzanotte dello stesso giorno. Diciotto ore, come l’Ulisse di Joyce, tanto per volare bassi. Scrivo proprio così, a penna sul mio quaderno, “tanto per volare bassi”.
Sull’Ancona-Foligno appunto altre cose, faccio un primo elenco di luoghi di Firenze dove si svolgeranno le storie. Quando a Foligno prendo l’ultimo treno, quello per Firenze, scrivo il primo titolo provvisorio: “Una giornata”.
Poi crollo e finalmente mi addormento.
A casa, dopo pranzo, sogno un colossale pisolino insieme ad Antonia. Finisce che lei si addormenta clamorosamente subito, io invece dormirò sì e no mezzora. Poi riapro gli occhi e mi rimetto a scrivere, perché mi è venuta in mente un’altra storia, quella di Giulia, la tragica storia di Giulia che ha perso le scarpe. La abbozzo mentre Antonia dorme pensando che sarà l’ultima, che in “Una giornata” non ci sarà spazio per altro.
A questo punto ho ho una marea di materiale. Per non annegare e iniziare la stesura del romanzo, occorre fare ordine al più presto. Ci sono appunti a penna, appunti stampati, pezzetti di storia, scene singole e trame intere di singole storie.
Ordinare, ordinare. Ma quando e come? Quella che si apre è praticamente la settimana più incasinata dell’anno: pile di compiti da correggere, due riunioni, il ricevimento pomeridiano dei genitori, la simulazione dell’orale di maturità da allestire e una doppietta di presentazioni da urlo, il sabato a Mestre e la domenica il clou al Salone del Libro di Torino.
Visto il taglio cinematografico, decido che procederò come stessi scrivendo un film. Ovvero, per ordinare, farò una “scaletta”, un elenco delle scene, nell’ordine in cui poi vorrò disporle nel romanzo. Il che non mi aiuta: scaletta o schema, il tempo non ce l’ho comunque. Eppure ci sono momenti in cui non puoi proprio fare a meno di scrivere, e se il tempo non ce l’hai ti tocca inventarlo.
Ecco, è, esattamente, uno di quei momenti. Così inizio a stendere giù la scaletta. La mattina, nelle ore di buco. In un bar losco e nascostissimo in una traversa di via Boccaccio, quartiere Le Cure, dove mi vado a infrattare nelle pause pranzo prima delle riunioni pomeridiano e dove nessuno mi può trovare. Poi la sera, dopo che Antonia si è addormentata, fino a mezzanotte correggo temi. Da mezzanotte all’una rispondo alle mail e ai messaggi, perché il tour de “Il Piccolo Principe è morto” sta raggiungendo proporzioni ciclopiche e la macchina organizzativa diventata enorme. E dall’una alle tre scrivo il mio romanzo. Il pomeriggio del ricevimento genitori, parlo con l’ultima famiglia intorno alle diciannove. Congedati i genitori, resto lì a scrivere, senza rendermi conto del tempo che passa. Alle venti passate la voce della custode mi risveglia: “Professo’, non ci torniamo a casa stasera?”. Il giorno dopo, al supermercato, in fila alla cassa, addirittura mi metto a scrivere usando le note dello smartphone.
Quando il sabato mattina parto per Mestre, la scaletta è ultimata. Non è uno schema rigido come quello che anni prima avevo scritto per “Il Piccolo Principe è morto”, è al contrario uno strumento flessibile, pieno di buchi e di punti interrogativi. Ma è quello di cui avevo bisogno e questo basta.
Nonostante questo, c’è qualcosa che non mi quadra. Il romanzo c’è, so cosa scrivere e soprattutto come scriverlo, eppure manca qualcosa. Ci rimugino in viaggio verso Mestre, ma senza troppo impegno. Sono veramente stanco e mi servono troppe energie per la due giorni super che mi aspetta.
L’unica cosa che faccio è cambiare il titolo. Capisco che il vecchio Bob è il filo conduttore di tutto, ma l’unica vera protagonista è Firenze, che il romanzo è in realtà un gigantesco atto d’amore nei suoi confronti, verso questa città che mi si è offerta in tutto il suo tragico splendore, in ogni sua contraddizione, che mi ha adottato, si è fatta mia e mi ha fatto uomo. Così lo ribattezzo semplicemente “Firenze”. E comprendo perché ho tutta questa urgenza di scriverlo. Anche se quel “non so che” continua a sfuggirmi e a non far quadrare il tutto.
Poi stacco per dedicarmi anima e corpo alla due giorni di presentazioni. Veramente, la domenica mattina all’alba, partendo da Mestre in direzione Torino mentre piove che dio la manda, sono tentato di rimettermi a esaminare gli appunti. Poi però penso che al Salone mi aspetta la presentazione più importante della mia vita, quindi opto saggiamente per il riposo. Segue una splendida, indimenticabile giornata.
Quando vengo via dal Salone, strafatto di emozione e adrenalina, sono le sette di sera e su Torino cala uno splendido tramonto primaverile. In teoria sarei stanchissimo, in pratica sono un fiume in piena. Appena parte il treno in testa mi si compone un’immagine di donna, fianchi larghi e capelli scarmigliati. E occhi azzurri. Come sarebbe Firenze se fosse una donna. La chiamo Alma e capisco, di colpo, cos’era quel qualcosa che non quadrava: mancavano ancora delle storie. La prima è quella Alma, o meglio quella di Dario innamorato di Alma, che mi appunto immediatamente.
L’altra non devo inventarla né cercarla: è la storia di Margherita, di un paio di mutandine rosse e di uno stupro terribile che mi ossessiona da anni. Capisco che è arrivato finalmente di scriverla e che il suo posto è nel mio romanzo.
Quando arrivo a Firenze, stremato e carico di libri per Antonia, il romanzo “Firenze” è finalmente chiaro e completo nella mia testa. Non mi resta che scriverlo.
Così comincio. Quella che inizia è una settimana ancora più incasinata della precedente: altre tre presentazioni (dopo ti chiedi perché mai lo chiamino “il maggio dei libri”), un passaggio in radio, altre riunioni il pomeriggio, il consiglio di classe per la maturità, altri compiti da correggere.
Ma non posso fare altrimenti, questo romanzo mi brucia dentro e il tempo mi tocca inventarlo. Come prima e più di prima. E a parte le ore buche e i pisolini di Antonia lo scrivo per lo più di notte. Notte fonda, fondissima. Una pagina, a metà settimana, la scrivo in spiaggia a Grosseto, dove mi trovo per la presentazione, con addosso uno splendido tramonto. È un maggio davvero meraviglioso. E meraviglioso è questo scrivere impossibile, a singhiozzo, famelico, frenetico, nervoso ed eccitato. Partito dall’incipit “c’è un film dietro ogni mattina”, le parole sgorgano fuori come acqua sorgiva dalle rocce. Una scena dopo l’altra, le varie storie si inseguono, si sfiorano o si ignorano, ma si incastrano nella più naturale delle maniere. Seguo la scaletta per lo più, ma a volte no, altre volte salto la scena prevista, lascio spazi bianchi, poi torno indietro oppure no.
Scrivo e mentre scrivo penso che no, non ho mai scritto in una così completa e febbrile libertà senza capire né sapere esattamente dove e come tutto questo andrà a finire.
Quando il sabato sera torno a casa da Pontedera, dove alla libreria Equilibri ho fatto l’ultima presentazione della settimana, scorro velocemente tutto il lavoro fatto: ventinove cartelle. In meno di una settimana, usando solo i ritagli di tempo, è una mole spaventosa.
Il pomeriggio dopo sono a casa da solo. Un pomeriggio libero, ore e ore tutte per me come non capitava da anni e come probabilmente non capiterà più per chissà quanto tempo. Penso di spaccare il mondo, che arriverò a scrivere chissà quanto e chissà dove. E invece non scrivo un bel niente, nemmeno una parola. Mi blocco, arrovellandomi sul più stupido dei dettagli. Capita, e spesso, quando si scrive un romanzo. Ma visto il furore dei giorni precedenti e vista la sensazione di buttare via il più prezioso dei pomeriggi, non lo accetto. Mi agito, smadonno, non ho pace. In questi casi l’unica cosa sensata da fare è staccare e non accanirsi. Infatti, saggiamente, stacco. Esco fuori e vado al mio bar preferito a farmi uno spritz. Mentre lo aspetto dalla radio parte “Over the rainbow” e dalla porta entra il sole rosso del tramonto ed Eva, la ragazza che mi fa lo spritz, ha nelle mani una grazia che commuove e tutto è così… come dire, preciso, tutto esattamente dove dovrebbe essere, che il nodo si scioglie, il blocco svanisce, il dettaglio diventa magicamente chiaro e la frase che mi mancava e che mi aveva mandato in tilt la scrivo lì, sul tovagliolo di carta, con la penna che Eva mi porta assieme allo spritz.
Il romanzo può ripartire. E infatti, riparte. E dal giorno dopo ricomincio a macinare parole e pagine negli avanzi di tempo. Cambio orari, non più a notte fonda ma alle prime luci dell’alba, con la sveglia che ogni mattina mi suona alle quattro, io che scrivo fino alle sette e poi, dopo la doccia, vado a scuola. E cambio titolo. “Firenze” mi pare troppo generico, soprattutto troppo ingiusto, troppo pretenzioso. Come se la Firenze vista da me e dai miei personaggi fosse Firenze in assoluto, l’unica Firenze possibile. Opto per “Firenze una giornata d’inverno”. Anche se non mi convince per niente.
Macino così forte che quando sul calendario sopra la scrivania (e anche in tutti gli altri calendari del mondo) c’è scritto 24 maggio, venerdì, meno di due mesi dal viaggio verso Roma, arrivo alla fine. Ovvero, scrivo il finale. Che non vuol dire che abbia finito, perché mancano ancora tante cose: mancano quasi tutte le scene di Lukas il senzatetto e metà di quelle di Ketty la prostituta, mancano alcune cose di Andrea Assennato lo studente fuorisede. E mancano tutte, interamente, le storie di Tommy lo stronzo, di Magherita e di Dario e Alma.
Quella che ho in mano non è una vera “prima stesura”, piuttosto un “quasi romanzo”, compiuto al 60%. Lo rileggo la mattina dopo, tutto di fiato e senza interruzioni. Oltre a cambiare nuovamente il titolo – “Da Firenze una giornata d’inverno” a “Firenze, un giorno” – penso che pure se ancora manca quasi la metà, l’idea del romanzo che sarà, dove vuole andare a parare, c’è già tutta. Così decido di mandarlo a Emiliano, già così incompiuto, per sapere cosa ne pensa e se gli va di pubblicarlo.
Prima di inviarlo però c’è una cosa che voglio fare perché nel frattempo ho avuto un’altra idea. Le scene sono numerate in maniera progressiva come le scene dei film, ma non mi basta. Non mi basta la videocamera di Bob e alcuni richiami al cinema. Voglio proprio dargli un taglio da sceneggiatura. Così ai numeri progressivi aggiungo le intestazione da slideline: interno/esterno, giorno/notte, dettaglio della location e orario. Passo il fine settimana a fare le slidelines di tutte le scene. Poi lo rileggo ancora una volta, faccio le prime correzioni: amplio e definisco la storia di Red, completo quella di Assennato lasciando giusto un punto interrogativo per un possibile intreccio con Dario e Alma, amplio ancora la storia di compagno Omero fino a farla diventare una delle più lunghe, aggiungo roba alla storia di Giulia, lasciandole uno spazio bianco per legarla a quella di Margherita.
Rileggo ancora. Manca ancora tanto da scrivere, ma posso comunque spedire questa specie di bozza. Capisco che questo romanzo è una dichiarazione d’amore doppia: a Firenze e al cinema. E che quindi può avere un solo titolo “Firenze, un film”.
Cambio il titolo, stavolta per sempre, e invio il file a Emiliano. È finito maggio nel frattempo, con l’ennesima presentazione, uno dei mesi più densi e intensi della mia vita.
Le storie che mancano le scrivo separatamente. Prima quella di Margherita, dividendola in sequenze che inserisco tra le altre, cambiando più volte il montaggio fino a che non trovo la quadra. E l’incrocio con Giulia. Poi tocca a Dario e Alma: Alma diventa altro dalle intenzioni iniziali, più una apparizione, una proiezione mentale di Dario che un personaggio vero. Cambio anche l’incrocio previsto con Andrea Assennato, e di conseguenza cambio alcune cose della sua storia. Manca Tommy lo stronzo. Riprendo la bozza del raccontino scritto a inizio maggio sul treno per Pescara, cambio delle cose, lo faccio ancora più stronzo e ancora più pulp. Lo finisco in mezzo al cemento dell’Isolotto nuovo, tra palazzi come casermoni e lo sferragliare della tramvia, l’ultimo giorno di scrutini, quando un calendario impietoso mi ha lasciato sei ore di buco tra una classe e l’altra.
La stessa sera arriva la telefonata di Emiliano. Che in sostanza dice vai, finiscilo presto, che lo pubblichiamo. La scarica elettrica che ti arriva addosso quando ti danno la conferma che ti pubblicheranno un libro non si racconta. E ogni volta ha effetti e manifestazioni diverse. Questa volta torno a casa dalla fiumana di scrutini così esaltato che sono convinto, convintissimo, che passerò la notte in bianco a ultimare il libro per spedire la prima stesura completa alle prime luci dell’alba. In fondo devo solo impastare tre storie con tutto il resto. Invece arrivo a casa, ceno, festeggio con Antonia e Teresa. Poi crollo, mi addormento. E il giorno dopo porto Antonia al nido, torno a casa e mi addormento di nuovo. Dormo fino a tardi, pranzo, vado a prendere Antonia e poi mi addormento di nuovo insieme a lei. E dormo tutto il pomeriggio. La sera usciamo ma torniamo presto. E io mi addormento subito.
Va avanti così, per tre o quattro giorni. Quante ore di sonno dovevo recuperare?
A scuotermi dal letargo è la presentazione a Cortona, l’ultima prima della pausa estiva (da febbraio, ne ho fatte trenta). Quella stessa sera, o meglio la stessa notte, inizio il “montaggio” del libro, inserendo le storie mancanti e spostando e definendo alcune scene di storie già inserite. È un lavoro certosino, poca creazione e tanta concentrazione, poco estro e tanto cesello. Eppure si svolge esattamente come tutto il resto della scrittura, a velocità supersonica, in uno stato a dir poco febbrile.
L’inizio degli esami di maturità però rallenta inevitabilmente il lavoro. Sono commissario esterno in un liceo di Porta Romana. Mi è toccata una commissione gigantesca di oltre cinquanta candidati e ne avrò fino a luglio inoltrato. Ma non mi fermo e continuo il mio lavoro. Disciplinato come un samurai mi sveglio ogni mattina alle quattro, scrivo tre ore e poi vado a fare gli esami. Quando finisco di correggere gli oltre cinquanta temi, in attesa che finiscano anche le correzioni della seconda prova, mi barrico in un bar e scrivo, monto e smonto paragrafi e sequenze.
Una mattina – è il quinto giorno di orali – capisco di essere in dirittura d’arrivo. Ma non posso concludere, sono già le sette e devo chiudere tutto e correre a scuola. Sudo e non è l’adrenalina, solo che già alle sette è un caldo bestiale. Sarà una delle giornate più calde dell’estate.
Infatti alle due e mezza, orali conclusi, siamo a 40 gradi tondi, mentre quel che dice il termometro della macchina è qualcosa di irripetibile. E un po’ non ho il coraggio di salirci, un po’ quel senso di coito interrotto che mi porto dietro dalle sette di mattina, trovo una panchina all’ombra nel giardino di Porta Romana, in una Firenze deserta e spaccata dall’afa, abitata solo da americani violacei in sandalo o infradito. Resisto un’ora: gocciolo paurosamente sudore da ogni poro, perciò devo smettere. Non ho finito, ma almeno ho placato l’insoddisfazione.
Ormai ci siamo e non posso aspettare la mattina dopo: poco prima di mezzanotte mi metto al lavoro, e sempre braccato dall’afa infernale di fine giugno, dopo un’ora e mezzo o poco più termino il mio romanzo.
Non ci posso credere. Il solito calendario dice che da due ore scarse è il 28 giugno.
30 marzo-28 giugno. Nemmeno tre mesi. Undici/dodici settimane per finire un romanzo. Se penso che per “Il Piccolo Principe è morto” ci ho messo undici/dodici anni, mi sento quasi svenire.
Ad ogni modo, il mio terzo romanzo è lì, scritto e completato non solo in tempi record (“Amore e disamore”, che fu il mio primo romanzo pubblicato, anche se lo iniziai dopo “Il Piccolo Principe è morto”, mi impegnò per un anno e poco più, e fino ad ora mi sembrava comunque un tempo brevissimo), ma soprattutto scritto in un momento in cui era oggettivamente impossibile scriverlo.
Non so se è bello o brutto, ma so che capisco cosa significa l’espressione “i miracoli dello scrivere”. La capisco guardando i fogli impilati di questa mia folle e frenetica creazione: “Firenze, un film”, una novantina di cartelle, 180 pagine di libro o giù di lì.
Il giorno dopo, sempre a fine orali, lo rileggo. Lo faccio “di fioretto”, ovvero cambiando appena qualche virgola, qualche a capo, invertendo o sostituendo al massimo un paio di parole. Come prima stesura, so che non posso dare di più.
E lo invio al mio editore.
È il 28 giugno.
Una manciata di giorni e saranno finiti gli esami. E per tutta l’estate starò senza impegni. Ferie, nessuna presentazione. E anche questo “Firenze, un film” lo lascerò stare. Sicuramente Emiliano lo finirà prima, mi rimanderà le sue osservazioni e le sue correzioni, ma di comune accordo abbiamo deciso che io non ci metterò mano fino a settembre.
Quando ricominceranno a pieno ritmo le presentazioni de “Il Piccolo Principe è morto”, quando ricomincerà la scuola. E quando riprenderò “Firenze, un film” per trasformarlo, attraverso l’editing, n un libro vero e proprio. Che uscirà a inizio 2020.
Ma di questo parleremo un’altra volta. Adesso conta solo questo romanzo scritto in tre mesi (ma forse pensato già oltre vent’anni fa), mentre lavoravo come mai e percorrevo l’Italia per presentare un altro romanzo che mieteva successi che mai (giuro, mai) avrei pensato possibili. Conta solo ripensare a una folle primavera 2019 che no, davvero non potrò mai dimenticare.
Poi volevo scrivere tutt’altro all’inizio, o forse no. È che a volte – specie in momenti come questo, che il tour delle presentazioni di “Firenze, un film” sta finalmente partendo dopo mesi e mesi di contatti solo virtuali – si ha un bisogno disperato di rimettere insieme i pezzi e capirci qualcosa.
Grazie a chi ha letto tutto arrivando fin guaggiù!

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