Steven Spielberg – “Schindler’s List”

Il 1993 al cinema, seconda parte. Ovvero un diluvio di capolavori in pochi mesi (e poi continuate a dire che gli anni novanta… ).
A partire da Addio mia concubina, splendido – e aiutatemi a dire splendido! – film giustamente premiato con la Palma d’Oro a Cannes (anno davvero di grazia, la Palma per la regia andò a Caro Diario, vedi puntata precedente). Epico nel senso letterale del termine – e come solo i film orientali sanno essere, e definitivo, si staglia maestoso e intimissimo lungo il dramma della tumultuosa storia del novecento che si fa dramma privato e viceversa. Finale tragicamente inevitabile, indimenticabile come certe tragedie di Sofocle. Occorre confessare che ci si aspettava tutt’altro: un polpettone lentissimo con, al massimo, qualche gustosa scena di sesso sullo stile de L’impero dei sensi. Fu meraviglioso essere smentiti.
A seguire quello che fu non il film più bello, ma di sicuro quello da me più atteso dell’anno. Ovvero, Così lontano così vicino, del gigante Wim Wenders, ma soprattutto sequel (per quanto parlando di Wenders il termine sequel assume significati imprevedibili) de Il cielo sopra Berlino, che avevo visto in VHS l’anno prima e me lo sparavo almeno (almeno!!) una volta alla settimana e che era in tutto e per tutto il MIO film. Premio speciale della giuria a Cannes (ora, ma vi rendete conto cos’era Cannes quell’anno lì??? No, ma voi continuate pure a dire che gli anni novanta… ), questo film ha un solo difetto: paragonarlo a Il cielo sopra Berlino lo penalizza, per non dire che lo affossa completamente. Va da sé che Il cielo sia inarrivabile. Soprattutto, è qualcosa di unico. E siccome come dicevo prima il termine sequel in Wenders va preso non alla lettera, Così lontano così vicino è altra cosa: stessi meravigliosi protagonisti ma altra cosa, tutt’altra cosa, altro contesto storico (soprattutto!), altro ritmo, altre dinamiche, soprattutto interiori. Il risultato è un film meravigliosamente poetico, sospeso e incantato come solo il grande incantatore tedesco sa fare. Colonna sonora – Lou Reed (che compare pure nel ruolo di se stesso e che all’epoca veneravo quasi come Jim Morrison), U2, Johnny Cash e Nick Cave (cioè, capito che roba??) – semplicemente da urlo.

Uscì anche, nel 1993, il nuovo Woody Allen. Il genio newyorchese da qualche anno non era propriamente in forma (la crisi sentimentale – e giudiziaria – con Mia Farrow si faceva sentire di brutto), ma quell’anno lì sfoderò Misterioso omicidio a Manhattan, che magari non è al pari dei suoi più grandi capolavori, ma è comunque uno spasso, ritmo vertiginoso e travolgente quasi come i suoi primissimi film comici (tipo Provaci ancora Sam!, per intenderci). Al cinema, ricordo, ci scompisciammo. E poi, pure se non è il miglior Allen, ci sono battute che valgono il prezzo del biglietto. Su tutte: “gagliardo questo Wagner, solo ad ascoltarlo viene voglia di invadere la Polonia!”.

Poi, il “film evento” La casa degli spiriti, ultra pubblicizzata trasposizione cinematografica del best seller della Allende. Cast a dir poco stellare, Meryl Streep, Jeremy Irons,Glenn Close, Antonio Banderas, Wynona Rider (che, lo ricordo ancora una volta, amavo disperatamente), Vanessa Redgrave… per una confezione a suo modo “perfetta”, così come “perfetto”, sempre a suo modo, è il romanzo. Già all’epoca super politicizzati e ultra “engagés”, la mia combriccola e io ci riversammo al cinema. E ovviamente ci piacque e parecchio (per qualcuno divenne subito oggetto di culto), perché è oggettivamente e indiscutibilmente un bel film (io poi all’epoca ancora nemmeno avevo letto il libro, perciò pure la trama fu una sorpresa assoluta). Però. Ma. Eppure. C’è qualcosa (di grosso) che non va, che stride, che quanto meno lo ridimensiona (e di molto). Tutto – denuncia politica compresa e denuncia politica soprattutto – troppo “costruito”, troppo geometrico, troppo lineare e calcolato. E non perché è una versione “hollywoodiana” della storia. Anche il romanzo è così. Una semplificazione, una pulizia “commerciale” della complessità vertiginosa del realismo magico sudamericano. Ma il discorso sarebbe molto, troppo lungo. La chiudo qui, la chiudo così: bello, ma Garcia Marquez, Borges, Soriano e Sàbato, sono altra cosa. Decisamente.
E se poi parliamo di film “politici” (nel senso più positivo e profondo del termine), più forte (ed efficace) fu lo splendido Nel nome del padre di Jim Sheridan, drammatico e atroce frammento della tragedia dell’Irlanda del Nord, tratto da una storia vera (l’autobiografia di Gerry Conlon). Un film severissimo e privo di compiacimenti, che indigna e commuove nel modo in cui trasuda sete di giustizia a ogni inquadratura. Nel 1993, quando uscì in sala, non me ne accorsi. Lo vidi in VHS preso a noleggio l’anno dopo, quando vinse il festival di Berlino (e quando restò scandalosamente a bocca asciutta alla notte degli Oscar). Bellissimo. E tra i responsabili (assieme a Bob Geldof, i Cramberries, Sinead O Connor e i Modena City Ramblers) dell’Irlanda mania che sarebbe esplosa di lì a poco.

Poi tre film, che non entrano negli annali della storia del cinema, ma che per me, quell’anno, furono importanti. Il primo è L’armata delle tenebre di Sam Raimi, quel buon vecchio horror che diverte e terrorizza al tempo stesso: in quel 1993, diciassettenne, ero uscito – e da un po’ – da quella fase dell’adolescenza in cui l’horror classico era pane quotidiano, e il film di Raimi, splendido nella sua semplicità aliena da ogni pretesa, ricordo, fu un bellissimo tuffo indietro nel tempo.
Il secondo fu l’adrenalinico Una vita al massimo. Storia d’amore “on the road” tra un commesso in un negozio di fumetti patito di Elvis e una escort, tra sparatorie, agenti corrotti e papponi untuosi e lascivi, scritta da Quentin Tarantino, che però all’epoca io manco sapevo chi fosse (per poco, visto che l’anno dopo sarebbe uscito Pulp Fiction), mi piacque da impazzire. Una di quelle cose che ti entrano sottopelle senza che nemmeno te ne accorga, e riemergono improvvisamente ad anni e anni di distanza. Tradotto: trovo suggestioni e suggerimenti di quel film nelle cose che scrivo. Di continuo.
Il terzo, Kika, di Almodovar. Ora all’epoca io Almodovar non sapevo nemmeno chi fosse. Era uno di quei nomi che la critica faceva di continuo, ma i vari Legami e soprattutto Donne sull’orlo di una crisi di nervi, non li avevo visto. E nemmeno la mia combriccola. Li vedemmo tutti dopo. Dopo Kika per l’appunto. Che manco vedemmo al cinema, ma lo noleggiammo in VHS subito dopo (uno di quei film che andavano subito in noleggio perché al cinema non erano andati granché). Questo film è stranissimo, di una stranezza disturbante e atroce. Vedendolo, capii esattamente cosa fosse il surrealismo. Una delle più feroci satire contro il mondo della televisione, tragicamente rivelatore e in anticipo sui tempi. Con la scena di stupro più grottesca della storia del cinema (agghiacciante, ancora ho gli incubi per quanto è assurda, comica addirittura… ). Film da riscoprire.

E adesso, via con gli autentici fuochi d’artificio. In ordine crescente di importanza (secondo me, ovviamente).
Iniziamo con L’età dell’innocenza, del sommo maestro Martin Scorsese. Siamo in quella terra di mezzo tra l’era De Niro e l’era Di Caprio, ma gli attori di questa pellicola sono comunque fenomenali: eccezionale Daniel Day-Lewis, strepitosa Michelle Pfeiffer, meravigliosa Wynona “amore mio” Rider… E poi, soprattutto, lui è sempre Scorsese, gigantesco nello scavare il ventre di New York. Stavolta in un meraviglioso dramma in costume. Da lustrarcisi gli occhi.
Seguitiamo con Un giorno di ordinaria follia, film giustamente leggendario con uno strepitoso Micheal Douglas (che sì, nonostante Basic Instinct è comunque un gigante della recitazione). Probabilmente la più efficace e compiuta messa in scena dell’alienazione contemporanea, una sequenza iniziale da vedere e rivedere e rivedere ancora (e infatti, dopo il cinema, la vedemmo e rivedemmo in VHS fino a consumare il nastro). Palese, in questa sequenza da antologia, la citazione di 8 ½ di Fellini, e potentissima la strada “contraria” che il film americano prende rispetto al capolavoro italiano: fuga interiore in Fellini, violenza e follia in questo caso.
Si va avanti (sì amici, è SEMPRE il 1993… che poi capito, mi dici gli anni novanta… ) con il fantastico Quel che resta del giorno, un altro tuffo vertiginoso negli abissi silenziosamente urlanti dell’animo umano targato James Ivory, con una straordinaria prova d’attore per la coppia Hopkins/Thompson. Ancora più forte e bello di Casa Howard, è un film dolorosissimo sull’amore ucciso dall’incomunicabilità e dalla paura. Psicologico come un racconto di Joyce, emozionante e palpitante come un amore proustiano. Chapeau.

Ed eccoci a quel grandioso capolavoro che è Philadelphia (sì, ripeto, è sempre il 1993… ). Da standing ovation la coppia Denzel Whashington – Tom Hanks, per un film durissimo e complicato che, dopo un decennio di paure, pregiudizi, cattiva informazione, emarginazione, morte e solitudine, affronta in maniera frontale e severa il dramma dell’AIDS e la maniera distorta in cui – ancora oggi e figuriamoci all’epoca – viene percepito dalla società. La cosa più speciale di questo film è che poteva essere un melodramma facile e insostenibile. Invece è un gran film, lucido e impeccabile. E proprio per questo, le lacrime alla fine bruciano molto di più. Pezzo indimenticabile di Bruce Springsteen a impreziosire il tutto.
Andiamo avanti con il pazzesco (sì, non c’è altro aggettivo possibile) Carlito’s way, semplicemente il più gran film di Brian De Palma, tra i più colossali film di gangster (e sì che non sono pochi!), con un Al Pacino indimenticabile e disumano nel ruolo di Carlos Brigante. Truce, crudele e ferocemente ironico, poetico nell’essere sboccato come solo un certo “maledetto” cinema americano sapeva essere (verbo sciaguratamente al passato, perché oggi film così no, non se ne fanno più). E di cui De Palma è tra gli indiscussi capisaldi.
E arriviamo, pour en finir, a Lezioni di piano di Jane Campion, di cui davvero non so dire nulla. Solo che al cinema me lo persi. Lo vidi l’anno dopo in un cineforum, dopo che aveva trionfato a Cannes 1994. E solo che, soprattutto, io rimasi a bocca aperta senza proferire parola. Perché era il film dell’anima. La mia anima, visto che riuscì a toccare le mie corde più segrete, a farle vibrare, a farle piangere e, una delle prime volte in vita mia, a farmi tornare di corsa a casa travolto dalla voglia di scrivere. E di vivere. Capolavoro senza altro da dire. Holly Hunter straordinaria. E straordinaria anche A.B., che quando lo rivedemmo in VHS poi disegnò quella cosa con il dito.

Ma se la crudeltà di questa rassegna impone di concludere scegliendone uno, uno soltanto, in mezzo a tutta questa meraviglia io scelgo Schindler’s List. Senza dubbio. Perché magari mi sono emozionato più con Lezioni di piano; ed esaltato maggiormente con Carlito’s Way; e senza dubbio Philadelphia parlava maggiormente la mia lingua. Ma Schindler’s List, santo cielo, mi ha mostrato l’orrore, la banalità del male, mi ci ha fatto entrare dentro con il più straziante e spettacolare dei bianco e nero. E lo ha fatto come lo sa fare soltanto Steven Spielberg, che è il più mastodontico ed “esagerato” tra i registi hollywoodiani, ma al tempo stesso a differenza di tutti gli altri è tutt’altro che distaccato, al contrario gira con la più sincera delle compassioni, racconta donando tutto se stesso. E come in E. T. c’è tutto il suo incanto di bambino, in Schindler’s List c’è tutto il suo sgomento di uomo. Film necessario e definitivo, che ha cambiato per sempre il modo di raccontare l’olocausto. Attori (a partire da Liam Neeson) strepitosi, colonna sonora da cuore in gola.
E il cappottino rosso… be’ no, non ci sono parole.
E infatti mi fermo qui.
Guardatela…

#jukebox
#anni90
#gliAnniNovantaAlCinema

https://www.youtube.com/watch?v=o_EBeLtCxT0Il&fbclid=IwAR1aPF7jHe5FR9QU8fhu_ofiwYXi-tXer0vZQQKpm2ZfF7j9excUPxP9NKM

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