Persone

Quando parliamo di migranti siamo così impegnati a urlare il nostro essere pro o contro qualcosa che, indipendentemente da quale sia il nostro pensiero in merito, finiamo per dimenticare che sopra quelle barche – quelle che hanno traversato il Mediterraneo e quelle lasciate al largo per giorni, immobili in ulteriori attese e ulteriori agonie – ci sono persone. Persone con delle storie, storie che ci raccontano di rado e che quasi sempre ignoriamo completamente. Perché sono storie così terribili che l’informazione generalista non fornisce per i contenuti troppo forti, a tratti insostenibili. Quei contenuti che “potrebbero turbare la vostra sensibilità”. Il resto spesso (sempre?) lo fa la nostra pigrizia, il nostro non andare a cercare, la nostra superficialità nell’accontentarci delle “linee generali”, la nostra smania di schematizzare frettolosamente, prendere una posizione e urlarla, senza troppi contenuti o approfondimenti che, quella posizione, potrebbero complicare.
Eppure, per quanto terribili, orrende e spaventose, sono storie che dovremmo conoscere tutti. Non per cambiare idea, non per smuoverci dalle nostre granitiche certezze. Ma solo, indipendentemente da quale sia la nostra visione del mondo, per ricordarci delle persone e partire dalle persone. Per restituire ai nostri figli una società dove le persone vengano davvero prima di tutto.
Leggo e rileggo le storie di Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa. Le rileggo fino allo sfinimento. Alcune mi mortificano, altre mi annichiliscono, la maggior parte mi tolgono il respiro, mi rivoltano lo stomaco, mi fanno vomitare. Sono così atroci e impossibili che tolgono pure le lacrime dagli occhi, lasciandomi addosso solo la voglia di urlare.
Leggo la storia della bambina che iniziava a gridare e provava a mordere e percuotere chiunque si avvicinasse a sua madre – gravemente malata, praticamente immobile – per aiutarla e soccorrerla. Quella bambina di nemmeno quattro anni con dei soldi nascosti nella vagina. Quella bambina violentata durante la traversata. Quella bambina che chissà cosa ha visto fare a sua madre, se reagiva a quel modo davanti a ogni medico che provava a salvarle la vita. Quella bambina atrocemente non più bambina già a quattro anni scarsi.
La leggo e la rileggo, questa storia. Non ho fotografie né filmati, ma quella bambina riesco a vederla, a scorgerne il profilo, gli occhi grandi e nerissimi, il nasino all’nsu, le manine chiuse in un pugno, gli scampoli d’infanzia tenacemente resistenti in quel corpicino brutalmente scaraventato nell’orrore.
Poi guardo mia figlia, di nemmeno tre anni.
Mi chiedo cosa ci sia di diverso tra lei, che afferra un pupazzo e ride per chissà cosa scappando nell’altra stanza, e la bambina che proteggeva sua madre mordendo gli uomini che provavano ad avvicinarsi.
La banalità sconcertante della domanda – e soprattutto della risposta – mi dà le vertigini. Perché davvero tra queste due bambine non c’è alcuna differenza, tranne un annetto scarso di età e il particolare ben poco trascurabile che mia figlia è nata nella parte fortunata e privilegiata del mondo.
Guardo ancora la mia bambina. E guardando lei cerco di guardare me, come padre e come persona. E davvero farò di tutto perché mia figlia non viva mai come una colpa il fatto di essere nata in questa parte fortunata di universo. Così come, soprattutto, farò di tutto perché prima di ogni cosa pensi alle persone, perché prima di ogni cosa, di ogni pensiero e di ogni schieramento, vedendo una persona soffrire, affamata, assetata, straziata e sconvolta, non pensi ad altro che a tenderle la mano.

RL

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