Queste fiction senza coraggio

Ci risiamo. Dopo Rino Gaetano e Fabrizio De André, tocca a Mia Martini diventare un biopic evento prodotto e messo in onda da Rai Fiction. E come nei due illustri precedenti, a visione ultimata, la sensazione dominante è la profonda delusione per l’ennesima grande occasione buttata al vento.
Perché gli ingredienti per fare qualcosa di veramente grande e veramente di qualità (che magari, e finalmente, potesse competere con il mercato internazionale) c’erano tutti: un’interprete mostruosamente brava (Serena Rossi, così come lo erano Luca Marinelli e Claudio Santamaria), una vita degna di essere raccontata e soprattutto densa di spunti – diciamo così – universali e, non da ultimo, grandi budget a disposizione.
Nonostante questo, la prima delusione riguarda proprio la qualità tecnica e artistica del prodotto. Nel senso che oltre la bravura della protagonista c’è veramente poco, forse niente. Ruoli secondari – vizio antico e mai curato delle produzioni italiane – trascurati, sbagliati, approssimativi, col risultato di una recitazione che in linea generale fa acqua da tutte le parti (per non parlare del fatto che, per l’ennesima volta e in maniera tuttora incomprensibile, nelle produzioni italiane chiunque viva a sud di Napoli finisce per parlare un siciliano di maniera). E poi, soprattutto, quella regia e quella fotografia piatte, monocordi, anonime e dozzinali, che non riescono a schiodarsi da quel codificato standard “Rai-prima-serata”, per cui, alla fine, non c’è alcuna differenza registica e visiva tra un Montalbano e un biopic su De André, tra una puntata di “Un medico in famiglia” e una fiction su Mia Martini.
Una sostanziale mancanza di coraggio (eppure, ci insegna la storia, che il coraggio è il vero e unico “sale” di tutte le creazioni artistiche) che trasforma una potenziale grande operazione nell’ennesima fiction patinata con scivoloni continui nell’universo soap e cadute vertiginose nel gossip più morboso e superficiale. Perché a conti fatti, il difetto più gigantesco di “Io sono Mia” non è nemmeno la mediocrità tecnica, ma è proprio alla base, nella scrittura della sceneggiatura.
Un copione pieno zeppo di ellissi e buchi incomprensibili e inspiegabili, trito e superficiale, una soap maldestramente travestita da introspezione intellettuale, capace di trasformare una delle più immense e complesse personalità della storia della musica in un personaggio piatto e bidimensionale.
E mentre sui social si discute e ci si accapiglia sulla volontà di Ivano Fossati e Renato Zero di non usare il loro nome nella fiction (scelta invece umanamente comprensibilissima e da rispettare nel più totale dei silenzi), come fosse quello il problema (è talmente palese e sfacciato che, pur chiamandosi in altro modo e facendo altro nella vita, i personaggi della fiction siano Fossati e Zero – anche se il secondo ha uno spazio così inutile da rendere incomprensibile la sua presenza – da non alterare di una virgola le vicende esistenziali della cantante che hanno avuto i due come protagonisti), non ci si accorge del problema cruciale. Ovvero che il grande dramma di cui Mimì è stata vittima per gran parte della sua vita, vale a dire le assurde dicerie sul fatto che portasse sfortuna, è trattato nella fiction così, in maniera del tutto accidentale, una cosa spuntata fuori dal nulla e propagatasi in ogni dove senza che si spieghi né perché né per come. Si evita cioè di affrontare di petto la questione per quello che è stata, ovvero una gigantesca e vergognosa congiura di un mondo, quello dello spettacolo in genere e della musica in particolare, spietato e brutale, privo di scrupoli, basato sulla più feroce competizione, disposto ad emarginare, fare a pezzi e anche uccidere in nome di scalare classifiche e accumulare copertine e fama e denaro.
Poteva essere questo, “Io sono Mia”, quel grido di denuncia tuttora inascoltato di una donna troppo fragile e troppo inadeguata a certe folli corse al successo, distrutta dal suo stesso talento divino, dal suo stesso mondo, dalla cattiveria dei suoi stessi colleghi. Quell’atto definitivo e sacrosanto di denuncia verso uno dei più grandi scandali della storia della nostra musica, che ancora stiamo aspettando per rendere finalmente giustizia alla voce più grande che abbia mai calcato le nostre scene.
Il paradosso è che i nomi e i cognomi dei boss della televisione e della discografia, i nomi e i cognomi dei cantanti che crearono e alimentarono queste assurde dicerie, ci sono e li conosciamo, uno per uno. Ma noi siamo un paese totalmente a rovescio: ci interroghiamo del perché non si facciano i nomi di chi ha amato Mimì e non diciamo una parola sul fatto che passino ancora impuniti coloro che l’hanno distrutta.
E un paese a rovescio non può che produrre fiction senza coraggio.
Meno male restano le canzoni, meno male resta la sua voce, quel grido sublime di bellezza e dolore che ancora ci guarda scavandoci dentro. E chiedendoci rispetto.

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