A proposito del Mostro di Firenze…

Dopo aver pubblicato – qualche giorno fa – un breve post sul ritrovamento, a oltre trent’anni di distanza, dell’ogiva del proiettile nel cuscino delle ultime vittime del cosiddetto “Mostro di Firenze”, ho avuto il piacere di essere contattato da alcuni lettori con cui ho avviato piccole (ma interessanti) discussioni in proposito.

Torno quindi a parlare del “mostro” in questo nuovo post un po’ per approfondire e chiarire quanto detto nel precedente, e un po’ – forse soprattutto – per rispondere ad alcune domande che mi sono state fatte.
Prima di tutto sì, conosco discretamente la vicenda del “mostro”, me ne sono interessato a lungo e a fondo in passato. Una conoscenza approfondita, ma non certo esaustiva. Di sicuro, anche se mi piacerebbe, non tale da permettermi una ricostruzione completa di questa storia pazzesca lunga cinquant’anni.

Ciò premesso, rispondiamo alle domande e a chiariamo le questioni.

Quando parlo di indagini segnate da continui “errori grossolani”, in realtà intendo due ordini di questioni.
Uno riguarda la prima fase delle indagini, ovvero quando tutte le forze dell’ordine italiane si scoprirono totalmente impreparate, e quindi del tutto inadeguate, ad affrontare la complessità di un assassino seriale. Si pensi ad esempio che in uno dei due duplici delitti del 1982, sulla scena del crimine fu rinvenuta l’impronta di un piede che si ritenne essere quella dell’assassino. Per poi scoprire, molto tempo dopo, che era soltanto l’impronta di un carabiniere che aveva camminato dove non avrebbe dovuto.
L’altro ordine di questioni riguarda invece errori grotteschi commessi non solo quando ormai erano state costituiti e addestrati appositi apparati investigativi “anti mostro”, ma quando, visto il tempo trascorso, la vicenda del “mostro” era ormai affare conosciutissimo e ben più che all’ordine del giorno.
In sostanza se nel primo caso si può parlare di ingenuità certo imperdonabili, ma in qualche misura comprensibili, nel secondo sorge ben più di un sospetto su come si possa trattare di “errori” in qualche modo indotti, cercati e interessanti.

Quando invece parlo, come nel post precedente, di “verità parziale”, la questione diventa decisamente più complessa. E occorre, prima di tutto, distinguere, dal punto di vista non solo investigativo, ma soprattutto processuale, tra “cose certe”, “cose incomplete”, “cose probabili” e “cose ipotetiche”.
Ad esempio è cosa certa la colpevolezza di Pacciani, in quanto si basa su fatti acquisiti e provati in maniera inconfutabile. Sappiamo che Pacciani è morto di fatto da “uomo libero”, ma la sentenza di appello che lo assolse non si basava su fatti certi e provati, ma dipendeva esclusivamente dall’impossibilità di confermare la condanna in primo grado per un vizio di forma (nello specifico: il giudice rigettò i quattro testimoni chiave in quanto l’accusa li aveva indicati non con il loro vero nome ma con le prime quattro lettere dell’alfabeto greco). Nel momento in cui morì (morte, tra l’altro, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite) era alle porte un nuovo processo a suo carico, dove non solo le testimonianze rigettate in appello lo avrebbero definitivamente inchiodato, ma su cui sarebbero confluite altre prove determinanti e inoppugnabili che stavano via via emergendo nel processo parallelo ai “compagni di merende”.
Tuttavia, la colpevolezza di Pacciani, pur essendo certa oltre ogni ragionevole dubbio (con buona pace dei cosiddetti “innocentisti”), è al tempo stesso cosa incompleta. Ovvero, non possiamo dire con esattezza quanto e soprattutto in che modo Pacciani sia colpevole.
Per prima cosa non esistono elementi che colleghino Pacciani al delitto del 1968, che in teoria sarebbe il primo della serie dei duplici omicidi, ma in pratica si tratta di un rompicapo a tutt’oggi irrisolto, visto che pare avere un movente e soprattutto una modalità di esecuzione totalmente estranea a quella dei sette successivi. In comune, tra il delitto consumato a Signa nel ’68 e tutti gli altri, c’è soltanto la pistola. Pistola che, come sappiamo, non è mai stata trovata. Come una pistola usata in un delitto (quello del ’68) che pare essere stato omicidio “di clan” per punire una donna infedele sia poi finita nelle mani di un serial killer, è un autentico mistero.
Ma sempre sull’incompletezza del ruolo di Pacciani, molto deboli sono anche le prove e i riscontri circa la sua presenza nel delitto del 1974, a Rabatta, frazione di Borgo San Lorenzo. Le certezze ci sono soltanto dal terzo delitto (1981, Scandicci) fino all’ultimo (1985, Scopeti, frazione di San Casciano in Val di Pesa).

È certa anche la colpevolezza dei cosiddetti “compagni di merende” (uno dei due, Giancarlo Lotti, fu reo confesso), ma anche in questo caso vi sono numerose incompletezze. Anzitutto non ci sono loro tracce prima del delitto di Baccaiano di Montespertoli (1982, quinto della serie). Lo stesso Lotti, nella sua lunga confessione resa al commissario Giuttari, nega di aver partecipato ai primi quattro delitti. Quindi resta nebuloso il come e il perché della loro “entrata in scena” (almeno quella di Vanni, visto che Lotti sarebbe stato reclutato tramite un ricatto sessuale di Pacciani), ma soprattutto la gerarchia e la stessa natura di questa tragica e picaresca associazione a delinquere.
In sostanza uno dei nodi centrali che rende incompleto l’intero impianto a carico dei colpevoli certi – amplificato proprio in questi giorni dal ritrovamento clamoroso della nuova ogiva che lascerebbe presupporre la presenza di una seconda pistola – è il seguente: se, come a questo punto pare ovvio, la lunga lista di delitti non è ascrivibile a un singolo serial killer ma a un intero “mondo” perverso e criminale, quanto è esteso questo mondo? Chi ne faceva parte, quanti erano, chi stava accanto o al di sopra dei compagni di merende?

Non è invece affatto certa, ma è cosa molto probabile, l’esistenza del cosiddetto “secondo livello”, vale a dire di un gruppo di mandanti di tali omicidi. La cosiddetta “setta” che avrebbe ordinato ai compagni di merende gli omicidi. Al di là del diluvio dei più improbabili complottismi che si sono levati attorno a questa pista, la presenza di mandanti è suffragata da almeno tre elementi molto forti emersi e comprovati in sede giudiziaria: gli ingenti afflussi di denaro sul conto di Pacciani in corrispondenza con gli omicidi (almeno con cinque di essi); l’incapacità oggettiva di Pacciani e degli altri compagni di merende nell’elaborare delitti seriali; il mondo di messe nere e riti occulti che sin dagli anni ’70 si muoveva nella campagna fiorentina e a cui partecipavano personaggi di varia provenienza ed estrazione (provata è la costante presenza di Pacciani e molto probabile è quella di non meglio identificati “personaggi altolocati e insospettabili”).
Ad ogni modo, le indagini e le inchieste sul secondo livello, disposte a suo tempo da Giuttari, sono state bruscamente interrotte per mai del tutto chiariti “ordini superiori”. Perciò, sulla questione, al momento e da molti anni, tutto tace.

Alla sfera del “puramente ipotetico” appartengono invece le figure del farmacista di San Casciano Calamandrei e del dottore di Perugia Narducci, indicati negli anni tanto come esecutori materiali quanto come mandanti dei delitti seriali.
Contro Calamandrei ci sono, a tutt’oggi, soltanto le parole dell’ex moglie: benché il suo racconto fosse estremamente dettagliato e per nulla contraddittorio, la donna è stata ritenuta da più perizie mentalmente instabile e rinchiusa dal 2000 in una clinica psichiatrica. Non a caso non sono mai emersi riscontri a suffragio delle sue accuse. Nessuna delle numerose perquisizioni disposte sulla sua abitazione, nonché nessuna delle indagini contro di lui (il farmacista ricevette anche un avviso di garanzia per l’omicidio di Narducci) ha portato il benché minimo elemento indiziario.
Se l’ipotesi Calamandrei può a ragione essere catalogata nel capitolo “improbabile” (o altamente improbabile), il caso di Narducci suona diverso. Una mole decisamente impressionante di indizi (bene sottolinearlo: indizi e non prove) mette in connessione prima i movimenti e poi la misteriosa morte del giovane medico perugino con i delitti del “mostro” (e con quel mondo esoterico delle campagne fiorentine cui accennavamo prima). Almeno con gli ultimi tre, mentre più si va indietro nel tempo più queste tracce scompaiono (anche solo per anagrafe, è impossibile immaginarlo sulla scena in tempi troppo remoti). Affinché tali indizi possano trasformarsi in prove o essere accantonati per sempre, occorrerebbero indagini e, ovviamente, un processo. Ma come sappiamo, qualsiasi movimento attorno all’ipotesi del secondo livello, è ferma da tempo.

Questo, per ora, è tutto.
Avete altre domande?
E, soprattutto, avete altre ipotesi da mettere sul piatto?

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