Se De André diventa un tabù

I programmi musicali, dai talent più celebri a format in cui semplicemente si parla di canzoni, in televisione abbondano. E abbondando di conseguenza le cover, le interpretazioni, i riarrangiamenti di brani più o meno famosi, di artisti più o meno conosciuti.
E che tutto questo avvenga in un programma di alto livello o nella pura immondizia televisiva, c’è una questione che si ripropone di continuo: De André non si può suonare, non si può proporre. O, quanto meno, è meglio non farlo, non toccarlo. Con la motivazione che “è troppo grande”, “troppo alto”, “troppa roba”.

Un’aura gigantesca di intoccabilità (al momento senza pari, almeno nell’ambito della musica italiana) che per quanto mi riguarda è un autentico delitto, una contraddizione in termini, una stortura ingiustificabile.
Da “deandreiano” irriducibile e radicale quale sono, è ovvio che ascoltare una brutta cover di un qualsiasi pezzo di Faber, un’interpretazione che palesemente non ha capito nulla dell’originale, mi mandi in bestia. Ma in generale mi infastidisce e mi innervosisce (e non poco) ascoltare brutte cover di chiunque, anche di artisti che generalmente non mi piacciono.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che se davvero riteniamo De André così grande allora andrebbe fatto l’esatto contrario, ovvero farlo suonare, da chiunque e di continuo, al di là dell’effettivo risultato.
Perché, chiediamoci anzitutto, che cos’è un “classico”? Un classico è un qualcosa di irripetibile e inarrivabile che però, nonostante la sua grandezza e la sua unicità, è di tutti e per tutti. Un classico è qualcosa che, suo malgrado e senza volerlo, insegna e traccia strade e percorsi. Che, sempre suo malgrado e senza volerlo, contiene al suo interno infinite vite, infinite possibilità di esistere.

Senza voler fare paragoni assurdi, ma solo a puro titolo di esempio, pensiamo a Shakespeare, forse il più classico fra i classici. Nessuno può – né potrà mai – fare Shakespeare come Shakespeare, nemmeno gli interpreti più grandiosi. Eppure, da secoli, Shakespeare viene riproposto, tagliato, adattato, impastato, smontato e rimontato praticamente in tutte le salse. Anche in questo caso ho visto decine e decine di pessimi Shakespeare che mi hanno innervosito e a volte pure indignato. Ma anche in questo caso non è questo il punto. Il punto è che proprio in questa infinità di versioni, belle o brutte che siano, Shakespeare vive e mostra la sua vitalità e la sua immensa grandezza.

E questo vale, o almeno dovrebbe essere, per tutti i classici.
Per De André nello specifico questa pretesa di intoccabilità è doppiamente assurda, visto che parliamo di un artista che, per indole e ideologia, era già di tutti, già patrimonio comune quando ancora non era nessuno.
Per di più, c’è questa tendenza fastidiosa a voler giustificare l’intoccabilità con l’eccessiva complessità dell’opera dell’artista. Ma in realtà è vero l’esatto contrario: le canzoni di De André sono di una semplicità estrema, semplici nel senso più alto del termine. Come tutti i classici, come tutti i massimi capolavori, il canzoniere di De André realizza continuamente il miracolo di dire ed esprimere la complessità nella più semplice delle maniere.
Continuando a dedicare a De André un diluvio di studi e pubblicazioni sempre più specializzati e settoriali, e al contempo osteggiandone e scoraggiandone l’esecuzione, non facciamo altro che condannare Faber al destino di tantissimi (troppi) altri grandi scrittori, relegati nell’Olimpo della più astratta e vuota “grandezza”, resi inavvicinabili ai più in nome del loro essere geni assoluti, e di conseguenza trasformati in materia sconosciuta, lontana, spaventosa, morta.

A voler essere molto maligni, verrebbe da pensare che dietro tutto questo ci sia il preciso interesse a che le parole di De André, di certo semplici ma altrettanto di certo scomode, vengano ascoltate il meno possibile.
O più semplicemente, che si faccia di tutto affinché gli esseri umani restino il più lontani possibile dalla bellezza.

#resistenzeRiccardoLestini

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