Napoleone Bonaparte e la rivoluzione francese

Capita spesso che i miei studenti mi costringano al gioco delle “domande impossibili”.

Del tipo”qual è il suo poeta preferito?”, “qual è secondo lei il periodo storico più bello?”.

Domande impossibili appunto, cui ovviamente non posso né so rispondere. Tranne in un caso. Quando infatti mi chiedono chi è, a mio avviso, il personaggio più difficile da spiegare e da inquadrare, non ho alcun dubbio e rispondo: Napoleone Bonaparte.

Il celeberrimo generale e imperatore dei francesi, assoluto protagonista di un’epoca tumultuosa e convulsa a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, è infatti un sorta di gigantesca contraddizione incarnata: principale veicolo e diffusore degli ideali della rivoluzione francese in tutta Europa e, al tempo stesso, artefice della fine ultima del processo rivoluzionario, innovatore e conservatore, reazionario e rivoluzionario, nemico giurato dell’assolutismo dell’ancien régime e fondatore a sua volta di un impero totalitario e accentratore.

Una convivenza così complessa e inestricabile di opposti da rendere davvero difficile rispondere, o anche solo provare a farlo, alla domanda “chi era veramente, e in definitiva, Napoleone Bonaparte?”.

L’aspetto più complicato della materia è proprio il legame di Napoleone con la rivoluzione francese e gli ideali che la determinarono.

Fermo restando il presupposto che Napoleone fu figlio di quella rivoluzione e che la sua epopea politica e militare fu possibile esclusivamente grazie al particolare contesto generato dalla stessa rivoluzione, i fili che legano il generale corso agli eventi e agli ideali rivoluzionari risultano ben più profondi della semplice conseguenza storica.

Nella comprensione della questione nello specifico – e in generale del personaggio – si parte da un sostanziale errore di fondo.

Qualunque narrazione dell’epopea napoleonica – sui libri di scuola, negli speciali a lui dedicati o nei film che ne ricostruiscono la vicenda – ha il medesimo punto di partenza, ovvero quel 5 ottobre 1795 (13 vendemmiaio secondo il calendario rivoluzionario) in cui Barras, allora a capo del Direttorio repubblicano, lo nominò comandante in campo della piazza parigina allo scopo di salvare la repubblica dalla rivolta ordita dai monarchici. La veemenza e la determinazione con cui Napoleone soppresse la rivolta realista scongiurando un colpo di stato, gli valse la nomina a generale di quella Campagna d’Italia che, come risaputo, fu base e inizio della sua inarrestabile ascesa.

Tutto quanto avvenuto prima di questi accadimenti viene taciuto e tralasciato, sommariamente liquidato come trascurabile. Eppure, proprio gli anni e i fatti che precedettero quel 5 ottobre, possono dirci molto più di qualcosa sul rapporto tra il Bonaparte e la rivoluzione.

Quando Napoleone riceve da Barras il controllo di Parigi e una completa carta bianca per stroncare i rivoltosi realisti, nonostante la giovane età ha già alle spalle una esperienza militare di tutto rispetto, maturata proprio in seno alla rivoluzione. Pochi anni di gavetta in realtà, ma che, se guardati con l’ottica di una rivoluzione inarrestabile e capace di mutare scenari e contesti continuamente e quotidianamente, equivalgono a un’eternità.

Inizialmente, durante tutto il suo apprendistato militare alla Regia Accademia di Parigi, consumato negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della rivoluzione, Napoleone – molto più che strano a dirsi – come risulta dai suoi scritti dell’epoca, detesta completamente la Francia, coltivando in gran segreto l’ideale e il sogno dell’indipendenza del popolo corso.

La contraddizione, per cui l’uomo che sarebbe diventato uno dei simboli più forti e rappresentativi del patriottismo francese nel corso dei secoli (al pari, se non di più, di personaggi del calibro di Giovanna d’Arco e del generale De Gaulle) fu in estrema gioventù completamente ostile alla Francia, è in realtà solo apparente.

Al contrario, l’avversione di Napoleone per la Francia è assolutamente in linea con gli ideali che manifesterà in seguito. Vicino, anzi vicinissimo, agli ideali illuministi, nell’indipendenza della Corsica vede quel principio di libertà e autodeterminazione dei popoli caro proprio all’illuminismo e che nella rivoluzione americana aveva trovato pochi anni prima la sua prima e clamorosa applicazione. Allo stesso modo, l’odio per la Francia equivale all’odio per il governo francese, simbolo più alto e compiuto di quell’assolutismo che gli ideali illuministi lo spingono ad avversare in ogni modo.

Non a caso lo scoppio della rivoluzione francese nel luglio del 1789, e la fine dell’assolutismo che da pura utopia si tramuta di colpo in possibilità concreta, riavvicinano immediatamente Napoleone alla Francia, improvvisamente diventata simbolo di libertà. Non solo Napoleone, ma tutto il movimento indipendentista corso, in virtù di quanto appena detto, finisce per appoggiare la rivoluzione.

Tuttavia la strada comune dei rivoluzionari corsi e di quelli francesi, torna a separarsi l’indomani dell’arresto del re Luigi XVI e della proclamazione della repubblica, nell’autunno del 1792.

Il leader dei nazionalisti corsi, Pasquale Paoli, appena rientrato dal lungo esilio cui proprio il re decaduto l’aveva condannato, a fronte degli eccessi di violenza del governo repubblicano (e soprattutto del totale diniego nel prendere minimamente in considerazione la causa della Corsica), prende le distanze da Parigi, invitando tutta l’isola a resistere e insorgere contro i nuovi tiranni.

Napoleone, a dimostrazione di come l’indipendentismo corso fosse più uno dei tanti possibili legami agli ideali dei lumi piuttosto che un autentico e viscerale patriottismo,e soprattutto già dimostrando un’indole tenacemente pragmatica che contraddistinguerà quasi tutto il suo agire, tra la fedeltà alla causa corsa e quella alla rivoluzione francese sceglie quest’ultima, ovvero quella in cui la possibilità di una vera applicazione degli ideali in cui crede appare più realistica e concreta.

Il futuro generale non solo scelse la sponda francese, ma a ulteriore riprova della sua adesione agli ideali della repubblica e della rivoluzione, partecipò a più di un’azione di repressione dell’insurrezione corsa guidata da Paoli (tutta la sua famiglia, a causa di questo, fu costretta ad abbandonare l’isola e a riparare precipitosamente nel sud della Francia).

Una scelta di campo che si fece ancor più netta e precisa al momento di dare il proprio sostegno a una parte politica piuttosto che a un’altra.

Il movimento rivoluzionario infatti non fu mai una realtà unitaria. Al contrario fu sempre attraversato al suo interno da divisioni e scissioni drammatiche e laceranti, soprattutto a partire da quegli eventi che portarono alla deposizione del re e alla proclamazione della repubblica.

In quella galassia composita ed eterogenea di forze politiche spesso in guerra aperta tra loro, Napoleone aderì all’ala più estrema, radicale e intransigente della repubblica: i giacobini di Maximilen de Robespierre.

Napoleone fu quindi, autenticamente e indiscutibilmente, un giacobino, e l’intera sua attività di ufficiale della Guardia Nazionale durante la rivoluzione si svolse all’insegna del giacobinismo più ferreo e radicale.

Per questo la sua scalata ai vertici militari del paese, che in un primo momento, pur svolgendosi rapidamente era comunque rimasta nel raggio di una certa consuetudine e normalità, dall’autunno del 1793, ovvero quando, dopo l’epurazione dei moderati girondini guidati da Brissot, i giacobini di Robespierre e Saint-Just conquistarono la maggioranza dell’Assemblea Nazionale e del Comitato di Salute Pubblica, i gradi e il prestigio di Napoleone presero a salire a velocità prodigiosa.

In questo giocò sicuramente un ruolo ben più che importante l’amicizia tra il giovane Napoleone e il fratello di Robespierre, Augustin. Ma non fu certo soltanto l’amicizia con un politico potente e influente a garantire l’ascesa del futuro generale. A farlo salire così rapidamente e vertiginosamente furono anche, e soprattutto, i meriti conquistati sul campo, le prime evidenti manifestazioni di quell’indiscusso genio militare che di lì a poco avrebbe impressionato l’Europa intera.

In particolare durante l’assedio di Tolone dove, ben prima dello sventato colpo di stato realista ricordato in precedenza, piegò e sbaragliò una grande e tenace resistenza filomonarchica, grazie a una tattica militare completamente innovativa, spregiudicata ed efficacissima.

Però, nel luglio del 1794, la caduta di Robespierre e del governo giacobino, frenò inevitabilmente l’ascesa di Napoleone ed eclissò di colpo tutto il prestigio fin lì guadagnato, essendo il suo nome completamente associato a quella parte politica.

La sua fama venne così forzatamente e improvvisamente oscurata, e per oltre un anno Napoleone si trovò a ricoprire mansioni di poco conto, se non proprio irrilevanti.

Fino a quel 5 ottobre 1795 più volte ricordato, quando Barras, nonostante totalmente ostile ai giacobini e tra i principali responsabili del colpo di stato che aveva mandato Robespierre alla ghigliottina, consegnò nelle mani di Napoleone “il gioco” la stessa sopravvivenza della repubblica e delle sue istituzioni.

La spiegazione alla decisione di Barras – su cui più di uno storico si è a lungo interrogato inutilmente – è in realtà molto semplice. Nessuna contraddizione né chissà quale decisione clamorosa. Semplicemente Barras si trovò con le spalle al muro: l’estrema debolezza politica del governo del Direttorio aveva dato modo ai filomonarchici di riorganizzarsi al punto da costituire, per la prima volta dalla destituzione del re, una concreta minaccia per la repubblica. Così Barras, che conosceva le doti militari di Napoleone, per salvare se stesso, il Direttorio e la Repubblica, scelse di affidare l’operazione più complicata al miglior ufficiale di cui disponeva allora la Guardia Nazionale. Fregandosene, specie in quella situazione di estremo pericolo, che fosse giacobino.

Per il medesimo motivo, mesi dopo, gli fu affidato il comando della spedizione in Italia.

Ciò che accadde dopo è storia nota e risaputa. In Italia il suo genio militare si manifestò in tutta la sua potenza, riuscendo, con un esercito di richiamati, mal equipaggiato e impreparato, a mettere sistematicamente sotto scacco la potentissima Austria , superiore sia numericamente sia per mezzi a disposizione.

Una vittoria che trasformò all’istante Napoleone in mito vivente, un’impresa leggendaria che incendiò l’immaginario della gioventù di tutta Europa, smaniosa di abbracciare gli ideali giacobini e rivoluzionari. 7

Napoleone infatti, per quanto fedele al governo del Direttorio, almeno in quelle prime imprese fuori dai confini nazionali continuò a comportarsi da giacobino, importando, in Italia e altrove, quegli specifici ideali.

Poi le cose, soprattutto dal colpo di stato che determinò l’elezione di Napoleone a console della Repubblica (e che portò alla fine del Direttorio e di quel Barras che pure aveva reso possibile la sua risalita) cambiarono. Da un lato l’innato pragmatismo del generale e del politico, dall’altro la necessità di normalizzare una Francia sconvolta da dieci lunghissimi anni di continui rivolgimenti e stravolgimenti rivoluzionari, lo allontanarono ben presto dall’estremismo giacobino.

Soprattutto in politica estera, dove più spesso e a lungo andare, fu visto come “invasore” e “usurpatore” (ma allo stesso modo, ai tempi delle prime vittorie francesi contro le potenze antirivoluzionarie, erano stati visti e giudicati altri leaders della rivoluzione, in primis Danton); mentre in politica interna, nonostante la decisa sterzata “conservatrice” e moderata, nonostante pure, tanto durante il consolato quanto durante l’Impero, si trasformò in persecutore e castigatore dei reduci giacobini e del loro incrollabile estremismo, il suo nome continuò a essere associato alla rivoluzione francese in generale e al giacobinismo in particolare.

Non a caso i sostenitori dell’ancien régime e di quel processo chiamato “Restaurazione” che seguì la definitiva caduta dell’impero napoleonico, considerarono il decennio rivoluzionario e il quindicennio napoleonico un tutt’uno, un unico processo storico di cui il primo è premessa e preparazione del secondo. E ancora oggi sono molti gli storici, specie francesi, ad allargare le date della rivoluzione francese fino a comprendervi l’intera parabola di Napoleone.

Pur se chiarito, o quanto meno “disseppellito” dalla polvere dell’indifferenza, il rapporto tra il Bonaparte e la rivoluzione francese, gli stretti legami con l’illuminismo e la fazione giacobina negli anni della formazione e della giovinezza, restano chiaramente inalterate la complessità estrema del personaggio, l’altrettanto estrema difficoltà nello spiegarlo e inquadrarlo e, non da ultimo, resta inevasa la domanda da cui siamo partiti.

Ovvero: chi era, veramente e in definitiva, Napoleone Bonaparte?

Ennesima domanda impossibile. Più semplice dire chi non era, Napoleone Bonaparte. E forse non fu tanto Napoleone contraddittorio, quanto la sua stessa epoca, il suo stesso tempo, l’intera sua generazione a essere una gigantesca contraddizione e un’enorme convivenza schizofrenica di opposti.

Una generazione compressa, schiacciata e travolta tra una rivoluzione legittima e sacrosanta ma troppo giovane per non sfuggire di mano e annegare se stessa, e una reazione feroce, frustrante e anacronistica. Una generazione scissa e irrisolta per sua stessa natura e per suo stesso destino storico, tanto nelle sue mediocrità quanto nelle sue eccellenze, a metà tra razionalismo illuminista e passioni irrazionali, tra pragmatismo e ideali utopistici, tra romanticismo e neoclassicismo, tra ateismo e religione. Una generazione che si riconobbe in Napoleone e al tempo stesso lo rinnegò, che lo osannò e al tempo stesso lo calpestò: Beethoven che dapprima gli dedicò come “liberatore dei popoli oppressi” la sua “Eroica” e che poi ritirò sdegnosamente quella stessa dedica dopo l’incoronazione del Bonaparte come imperatore, Foscolo che si arruolò entusiasta come volontario per combattere a fianco e in nome del grande generale e che poi, dopo il trattato di Campoformio, si sentì tradito e violato nei suoi ideali più profondi.

Una generazione, in definitiva, di cui Napoleone fu simbolo sintesi, il personaggio più importante e rappresentativo, la cassa di risonanza più grande ed emblematica.

Questioni colte in pieno da Alessandro Manzoni che, nel momento di stendere il celeberrimo “5 maggio”, non solo in pochi versi riesce a restituirci questa complessità, questa scissione e questa doppiezza, ma soprattutto, nella stessa manciata di versi, riesce a parlare, attraverso il suo esponente più alto, di un’intera generazione. Quella generazione che, sognando la rivoluzione e combattendo la restaurazione, pur tra mille contraddizioni e forse suo malgrado seppe irreversibilmente cambiare il mondo. Quella generazione che, continuamente, “cadde, risorse e giacque”

#inostriantenati

#storieRiccardoLestini

***tutti i lunedì in questo blog si parla di storia nella rubrica I NOSTRI ANTENATI.

Puoi trovare tutte le “puntate precedenti” a questo link: www.riccardolestini.it/i-nostri-antenati.

Ti aspettiamo lunedì prossimo 10 aprile, con IL CONCETTO DI EUROPA – STORIA DI UN CONTINENTE

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