Sei bello come un mafioso

ovvero: il dito e la luna, l’indignazione ai tempi dei funerali di “don” Casamonica

Molti anni fa collaborai con un anziano regista catanese per la sceneggiatura di un documentario sulla mafia che poi, purtroppo, non fu mai girato. Di quel progetto tristemente incompiuto restano, oltre alla sceneggiatura, appunti, fotografie, sopralluoghi. E ricordi. Soprattutto, ricordi.
Ricordi di serate a base di pecorino, vino rosso e chiacchiere. Tante, tantissime chiacchiere.
Una volta il regista, ricordando la sua infanzia, raccontò a me e agli altri sceneggiatori che da ragazzo, quando sua madre riusciva a convincerlo ad andare a messa e a infilarsi il vestito buono, lo guardava tutto soddisfatta e commentava:
“Figghiu si beddu come un mafioso”.
La stessa cosa che dicevano altre mamme ai suoi amici, quando i figli si rivestivano a festa per qualche occasione. E di espressioni popolari del genere, abituali nel linguaggio quotidiano di un tempo, ne ho trovate parecchie, sparse ai quattro angoli della penisola, al sud come altrove.
Ecco, per me una riflessione seria e concreta sul più che discusso funerale faraonico del boss del clan romano dei Casamonica, deve partire necessariamente da un’immagine come questa: periferia di una città, casa di gente semplice, onesti lavoratori, la madre in piedi che guarda orgogliosa e compiaciuta il figlio maschio e, con la stessa naturalezza con cui gli farebbe da mangiare per sfamarlo, gli dice che è bello “come un mafioso”.
C’è, in questa tragica naturalezza, un qualcosa di irriducibile alla mera ignoranza, alla mera disinformazione. C’è una vera e propria cultura, un’immagine definita di società, dove “il mafioso” è associato al ben vestire, al rispetto e alla riverenza della comunità: è quello che “ce l’ha fatta” – non importa come -, quello che riscattando se stesso e la sua famiglia si è emancipato da una vita di sacrifici. Quello che può anche ripagare l’ossequio con aiuti concreti, non farlocchi come quelli delle istituzioni.
Oggi, a circa settant’anni di distanza dai tempi del racconto del regista, sentire una frase del genere è molto difficile. Oggi sappiamo, abbiamo imparato, come i termini “mafia” e “mafioso” si associno a quelli di “violenza”, “criminalità organizzata”, “illegalità”, “omicidio”. E via dicendo.
Eppure, spesso e volentieri, la pratica quotidiana del nostro vivere agisce in totale disaccordo con l’associazione semantica. In altri termini, pur se sparita la prassi dell’espressione “sei bello come un mafioso”, continua a sopravvivere, strisciante e inattaccabile, la cultura e la visione di società che la sottendono. Sopravvive nella velata (ma nemmeno poi tanto) ammirazione verso chi si è arricchito grazie a raggiri e furbizie d’ogni sorta, nella velata (ma nemmeno poi tanto) ammirazione verso il potere esercitato al di là – e al di sopra – della legalità e delle istituzioni, nelle energie quotidianamente profuse ad aggirare le più elementari regole del vivere civile, di qualunque genere esse siano: limiti di velocità puntualmente superati, gli scontrini fiscali spesso non battuti e ancora più spesso non reclamati, la ricerca di “bravi” commercialisti in grado di “aggiustarci” la dichiarazione dei redditi, la ricerca spasmodica di professionisti che “una tantum” esercitino senza ricevuta, residenze e intestazioni “ad hoc” per abbassare le tassazioni, centimetri di proprietà guadagnati annualmente per risultare invisibili alle regole edilizie, l’ossessione del massimo risultato con il minimo sforzo, la ricerca compulsiva di “conoscenze” per saltare la fila in ogni settore – a partire dalle visite mediche, la ricerca compulsiva di “conoscenze” per trovare lavoro. E chissà quante altre.
Questo “il ventre”, il quotidiano brulicare della nostra nazione. Ma se noi – restando in termini cinematografici – allargassimo l’inquadratura, e con una gru facessimo una carrellata aerea, salendo progressivamente dal basso di questo ventre verso l’alto, cosa vedremmo?
Vedremmo anzitutto un “piano intermedio” formato da un intricato sistema di poteri locali (amministrazioni comunali, enti pubblici, associazioni… ) che si comportano nello stesso identico modo. Scambiandosi favori, personale lavorativo e, soprattutto, finanziamenti, in un flusso continuo di denaro che appare e scompare come nel gioco delle tre carte. Amministrazioni locali, enti, associazioni che hanno guadagnato prestigio, vinto le elezioni e ottenuto il potere soprattutto grazie alla quantità di favori (posti di lavoro, concessioni edilizie, licenze commerciali) elargiti. Uffici di sindaci, vicesindaci e assessori che nei giorni di ricevimento si trasformano in tante piccole corti dei miracoli, con file di donne e uomini, giovani e meno giovani, alla ricerca di favori, sistemazioni, conoscenze, spinte, accomodamenti. Un gioco nemmeno nascosto, ma tranquillamente e normalmente esibito. Ripeto, “normalmente”, poiché è della cosa più normale del mondo che si tratta. O almeno come tale viene percepita. Chi vive, o ha vissuto, in un piccolo comune (nord, centro o sud che sia), sa esattamente di cosa sto parlando.
E in questo nostro “step” al piano intermedio, facciamo anche un’altra cosa. Zoomiamo. Fatela tutti, una zoomata. Andate a consultare gli archivi e i registri del vostro piccolo comune, guardate le composizioni delle giunte dal dopoguerra a oggi (maggioranza e opposizione) e divertitevi in questo gioco: contate quante volte ricorrono gli stessi cognomi. Poi prendete i cognomi più ricorrenti e verificate i rapporti di parentela che intercorrono tra essi. Vi assicuro che ci sarà da divertirsi. E da imparare molto più di qualcosa.
Una volta, anni fa, in un minuscolo comune molto vicino a dove sono nato (in Umbria), vidi un funerale a dir poco principesco. Un’intera comunità, tra corone gigantesche, gonfaloni, vessilli e icone di pessimo gusto, dava disperata e commossa l’ultimo saluto a un uomo che era stato sindaco per ben quindici anni. Cosa aveva fatto di così straordinario per aver lasciato un ricordo e un affetto così profondo nei suoi concittadini? Aveva costruito strade, fatto opere per la crescita culturale e collettiva, investito nel futuro? No. Niente di tutto questo. Aveva “aiutato” tutti. Tradotto: grazie alla sua credibilità e alla sua rete di conoscenze aveva “raccomandato” e “piazzato” in aziende, uffici, pubblico e privato, una quantità innumerevole di concittadini.
Riprendiamo la nostra gru e proseguiamo nella panoramica aerea. Arriviamo in alto, quell’alto che dà le vertigini. Una volta qui, cosa vedremmo? Anzitutto, rivedremmo il mafioso della prima inquadratura, quello ben vestito. Non fa più parate domenicali trionfali nel suo reame in provincia di Catania. Niente di tutto questo: adesso tratta da pari a pari con istituzioni e multinazionali.
Questo vedremmo. Vedremmo la ciminalità organizzata infiltrata ovunque, collusa con chiunque. Vedremmo i vertici delle grandi multinazionali appaltare ad organizzazioni criminali lo smaltimento di rifiuto, le direzioni di grandi firme appaltare alle medesime la cucitura e la confezione di abiti pregiatissimi e costosissimi, vedremmo i più grandi enti pubblici distribuire favori e lavori ai più feroci e spietati criminali della terra, tramite imprese, cooperative, associazioni fasulle, cantieri edili fantasma. Vedremmo gli armadi dei principali partiti politici traboccare di accordi illeciti, riciclaggi e connivenze d’ogni sorta, vedremmo una fetta consistente di parlamento coinvolta in processi, denunce, avvisi di garanzia per reati di stampo mafioso. Vedremmo una gigantesca trattativa tra Stato e Mafia svolgersi freneticamente l’indomani degli omicidi di Falcone e Borsellino, una trattativa infame e vergognosa che è arrivata a coinvolgere addirittura l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una trattativa su cui nessuno intende veramente fare chiarezza. Perché? La risposta è semplice e agghiacciante: perché è “normale” che sia così, normale che le cose vadano così, in questo paese, dal piccolo al grande, dal basso verso l’alto.
E vedremmo, a conclusione della nostra panoramica, Marcello Dell’Utri. L’uomo condannato in via definitiva per associazione mafiosa. L’uomo che è stato il principale creatore di Forza Italia, il partito che per vent’anni ha dominato la scena politica italiana, che per vent’anni ha governato l’Italia, che per vent’anni è stato votato da milioni e milioni di italiani. Milioni e milioni di italiani che, per la maggior parte, sapevano, nello stesso identico modo in cui sapevo io e sapevate voi. Ma hanno votato lo stesso. Perché? Idem, come sopra: perché è normale che sia così.
E finita la panoramica aerea, cosa resta? Come va a finire questo film? Va a finire con immagini prese e montate dai telegiornali, immagini di questi giorni ma che già fanno “repertorio”. Le immagini dei funerali faraonici di “don” Casamonica. Quelle immagini viste e riviste in questi giorni: l’elicottero, i petali di rose, la carrozza trainata da sei cavalli, le note de “Il Padrino”, le gigantografie in cui il caro estinto viene osannato come “Re di Roma”. E poi altre immagini, sincopate come quelle di un videoclip: l’imbarazzo della curia, lo sdegno della politica, le urla della politica, la processione dei parlamentari a condannare l’evento, la richiesta di chiarimenti alle camere, la rabbia, il disprezzo e lo sdegno della gente comune.
Tutti uniti tutti insieme contro una delle immagini più vergognose e imbarazzanti della storia recente del nostro paese.
Fine? Titoli di coda? No, non proprio. Restano ancora molte domande da porsi.
Una su tutte: perché questo funerale ci scandalizza così tanto? Cosa è che ci indigna? Cosa c’è di tanto strano?
Ripensando al film appena visto, possiamo capire come l’assurdo funerale di don Casamonica altro non sia che la rappresentazione farsesca, barocca, circense, truce, cafona e picaresca di una realtà, di un “modus vivendi” nazionale assolutamente radicato, praticato, diffuso. La conseguenza più logica di un paese che non chiede legalità ma semplificazione, non chiede giustizia ma raccomandazioni, non chiede futuro ma favori. Un paese che stima e riverisce i criminali, li vota, li mette al governo, li pretende in ogni cabina di comando.
Un paese che, molti anni prima che il “regale” corteo funebre di don Casamonica bloccasse Roma est, ha vissuto come assolutamente normale che Enrico “Renatino” De Pedis, tra i leader e i principali protagonisti dell’intera epopea della banda della Magliana (l’uomo che ha ispirato, nella fiction “Romanzo Criminale”, il personaggio di “Dandy”), venisse sepolto nella basilica di Sant’Apollinare come un’alta autorità. Un paese che, sempre a proposito della banda della Magliana, ha vissuto come assolutamente normale che Franco “er Negro” Giuseppucci, il fondatore stesso dell’organizzazione (quello che nella fiction ha ispirato il personaggio di “Libano”), venisse chiamato da tutti, da Testaccio a Trastevere, “Re di Roma”.
Allora, torniamoci a chiedere: cosa c’è di strano nelle esequie baraccone e nauseanti di Casamonica? Ancora: di cosa e perché ci scandalizziamo?
Ma chiediamoci anche, e soprattutto: perché non ci siamo indignati prima? Perché non ci siamo scandalizzati del fatto che il feroce criminale don Casamonica fosse a piede libero? Perché non sono state chieste interrogazioni parlamentari sulla totale libertà di movimento – dalla strada alle stanze del potere – di tutto il clan dei Casamonica? E tornando a ritroso nella nostra panoramica aerea: perché non ci scandalizziamo per ogni singolo politico coinvolto, direttamente o marginalmente, in inchieste per reati di stampo mafioso? Perché non alziamo polveroni ogni qualvolta una giunta comunale si trasforma in ufficio di collocamento per amici di amici, grandi elettori e affini?
Temo che la risposta sia sempre la stessa: perché non ci interessa farlo. Perché ci sembra assolutamente normale.
Così come temo che tutta questa attenzione nazionalpopolare verso “l’affaire” Casamonica abbia ben poco a che fare con l’indignazione. Si tratta semplicemente di una vicenda che contiene tutti gli ingredienti della peggior fiction-telenovelara che piace tanto agli italiani: burinaggine esibita, trucidume di bassa lega, interpreti impresentabili che ci fanno sentire migliori, scandali da due soldi, politicanti da linciare sulla pubblica piazza per lo sfogo del momento. Un perfetto gossip di fine estate su cui buttarsi a capofitto, un perfetto scandalo da ombrellone per dare modo alla politica di rinfacciarsi responsabilità a vicenda, sciacquarsi dai peccati e rosicchiare consensi.
Il gossip perfetto da dimenticare il giorno dopo. Perché è così che andrà a finire. Al pilota dell’elicottero è stata sospesa la licenza di volo; seguiranno altri “seri” provvedimenti, voci grosse in diretta, un paio di teste saltate, mini rimpasti per dare forti segnali di cambiamento, severi rimbrotti a questo e a quell’altro.
E poi tutto dimenticato. E torneremo alla nostra vita di silenzi e omissioni, richieste di favori e file alle corti dei miracoli. Torneremo belli come un mafioso.
Fine. Titoli di coda.
Sullo schermo un’ultima, definitiva, domanda:
chi ricorda la storia del dito e della luna?

RICCARDO LESTINI

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