Lo sbirro buono e lo sbirro cattivo

La tecnica è antica. Antichissima. La usavano addirittura, durante gli interrogatori, i feroci agenti segreti della Repubblica di Venezia nelle persecuzioni contro gli ebrei sefarditi e nella lotta a tutto campo contro l’impero turco. Erano i tempi dell’assedio di Famagosta, della lega di Candia, della battaglia di Lepanto. 1570-1571, o giù di lì. Ma probabile che la strategia risalga a epoche ancor più remote.
Il sistema è semplice, elementare. E perciò (quasi) infallibile. Invece di far torchiare il sospetto (o il testimone reticente) da un singolo agente, lo si stordisce in maniera schizofrenica, attraverso l’azione opposta e complementare di due poliziotti. Uno, quello cattivo, lo mette in difficoltà, lo fa cadere in contraddizione, lo insulta, lo minaccia, lo pesta a sangue. L’altro, quello buono, lo fa ragionare, lo blandisce, lo rassicura, gli offre acqua e sigarette. Il sospetto, o il testimone, gonfio d’odio e spaventato a morte per la violenza esibita e la brutalità del primo, a poco a poco – per contrasto – finisce per affidare completamente se stesso al secondo, convinto che fino a quando ci sarà lui nulla di male potrà accadergli. In realtà, lo sappiamo, è solo una messinscena: i due poliziotti chiedono e vogliono esattamente la stessa cosa. Solo che lo fanno in due modi diversi e, per ottenerla, è necessario che entri in scena prima il cattivo e poi il buono: se non entrasse prima il cattivo il buono nemmeno sembrerebbe tale.
Così facendo, l’interrogato può avere l’illusione di aver evitato il peggio e di essersi salvato. Ed è disposto a dire e fare qualsiasi cosa.
Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.
Giusto?

Riccardo Lestini

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