Quel che resta del ventennio

Se noi italiani fossimo un popolo sano, moralmente equilibrato, eticamente vivo ed ideologicamente profondo, oggi apriremmo una grande riflessione, un percorso anche doloroso di analisi, comprensione e considerazione su cos’è stato, nella teoria e nella pratica, il ventennio berlusconiano. Purtroppo le analisi approfondite, gli scavi tra le pieghe (e le piaghe) della storia più recente per coglierne e comprenderne errori e orrori, non sono mai state (né forse mai lo saranno) nel dna dell’Italia e degli italiani. In Italia preferiamo – da sempre – i tumulti alle rivoluzioni, Masaniello a Marat, rattoppare piuttosto che ricostruire. Per questo temo che per liquidare vent’anni di berlusconismo e di anomalie d’ogni sorta, ci basterà quel po’ di pratica circense e festaiola andata in scena sabato tra palazzo Chigi, palazzo Grazioli e il Quirinale: quattro urla, il coro ‘buffone, buffone’, un paio di monetine di craxiana memoria scagliate nel vuoto, spruzzi di indignazione di maniera e una parodia dell’alleluia. Poi basta, poi niente, già tutto dimenticato nella smania di seppellire e cambiare pagina. Si torna in silenzio, si torna nel nulla, in attesa del nuovo (nuovo?) che verrà. Così è (se vi pare) l’Italia. Un paese lento con troppa fretta di conservare la sua lentezza, incapace di guardarsi allo specchio, talmente timorato nello scavarsi dentro da riproporsi ciclicamente e continuamente come la parodia di se stesso, la versione in minore e farsesca di ciò che fu.
Se però per un attimo provassimo a fermarci, a riflettere veramente e approfonditamente su cosa sono stati, nella pratica, i vent’anni di Berlusconi, cosa troveremmo, quali sarebbero le risposte? Se lo facessimo davvero e con reale coscienza critica e civile, probabilmente scivolerebbero in secondo piano anche gli scandali, i processi, i bunga bunga e tutti gli strepiti annessi e connessi da prima pagina che hanno accompagnato in questi anni la politica del cavaliere. Per quanto miseri, deprimenti, riprovevoli e squallidi, bunga bunga & co. non sono affatto l’aspetto più inquietante della parabola berlusconiana. Anzi forse, non so dire quanto involontariamente, essi hanno rappresentato il fumo negli occhi, la coltre di nebbia, l’humus sordido alla cui ombra il potere di Berlusconi si è pasciuto, rafforzato, ingigantito fino a rendersi protagonista di infinite e clamorose resurrezioni. Bunga bunga e processi, starlette e barzellette, hanno scatenato violente indignazioni che, per un paradosso tutto italiano, hanno finito per rendere più saldo e solido il colpevole, che potendosi spacciare per perseguitato ha ottenuto nuovi consensi, simpatie bonarie e via dicendo. Non era così difficile, presentandosi da playboy casereccio, da machista chiassoso e ruspante, da cultore del culo e delle tette, essere invidiato e idolatrato da un paese sessualmente frustrato e represso. I vizi privati del cavaliere però, dicevo, hanno fatto da paravento, nascondendo abilmente l’effettiva sostanza dell’azione politica. Perché la vera domanda che dovremmo porci oggi, non è come è stato possibile sopportare e sostenere un premier moralmente impresentabile per così tanto tempo, ma che cosa ha realmente fatto Berlusconi in politica, quali sono stati gli effetti della sua azione esecutiva e amministrativa, che si snoda in quattro governi (i più longevi della storia della Repubblica) e sette anni di opposizione.
La risposta è secca e definitiva: niente, assolutamente niente. Come ha giustamente scritto Roberto Saviano, se dovessimo trovare una parola per sintetizzare l’intera storia politica di Berlusconi essa sarebbe ‘immobilismo’. Dal marzo del 1994 a oggi Berlusconi e i suoi governi non hanno fatto niente in materia di leggi e riforme per lo stato. Niente di buono e forse niente di particolarmente sbagliato, se lasciamo stare le leggi ad personam e rimaniamo nel campo di leggi riguardanti l’interesse nazionale. L’immobilismo dunque come matrice essenziale della politica berlusconiana. A ogni campagna elettorale, politica, europea o amministrativa che fosse, Berlusconi ha promesso una rivoluzione. Milioni di posti di lavoro, abolizione delle tasse, grandi opere, tanto per citarne alcune. Nessuna di queste annunciate rivoluzioni è poi stata minimamente messa in pratica. Colpa di Bossi, prima, colpa di Casini, ieri, e colpa di Fini, oggi. Sempre colpa di qualcuno, ma la sostanza resta la stessa: il nulla. L’uomo che nel 1994 scese in campo promettendo un nuovo mondo se ne va diciassette anni dopo lasciandoci in eredità un mondo ancor più vecchio di quello che aveva trovato. Diciassette anni atroci, in cui l’unico capolavoro politico è stato quello di neutralizzare ogni avversario politico inchiodandolo ai suoi affari personali, siano stati le donne, le televisioni, le tangenti, il conflitto d’interesse. L’unico capolavoro politico è stato quello di sbronzare l’Italia con la sua vita privata facendo dimenticare a un popolo intero il proprio destino e il proprio futuro. Tutto è stato continuamente e completamente accentrato su se stesso. Il Parlamento è diventata la sua azienda privata, gli alleati i suoi dipendenti, di cui si è via via liberato man mano che cessavano di essere tali, i compagni di partito i suoi fedeli e ossequiosi servitori. Anche i leader stranieri con cui ha avuto rapporti più stretti sono stati trattati come partner di affari: si pensi al gas di Putin o al petrolio di Gheddafi, tanto per fare due esempi. Per diciassette anni l’Italia si è fermata, regredita, impantanata nella risoluzione degli affari personali del suo premier.
Occorre quindi, oggi, anziché indignarsi, chiedersi come sia stato possibile tutto questo, come sia stato possibile accettare questo nulla politico, esecutivo e legislativo. Occorre chiedersi, prima di tutto, che popolo siamo.
Se l’Italia ha più o meno passivamente accettato tutto questo, è perché siamo un popolo storicamente e tragicamente sedotto dalla figura del Signore, che ha preferito le piccole Signorie ai grandi stati nazionali, sedotto fatalmente dal Signorotto locale, dal don Rodrigo di turno, potente e goliardico, prepotente e straripante, sbruffone e smargiasso, sprezzante e tracotante, che ostenta la propria ricchezza sfilando tra due ali di folla plaudente e ossequiosa. Il signore che promette, sbandiera, semplifica, si pone come il salvatore, l’uomo della provvidenza, che dice ‘ci penso io’. Come ho già detto, siamo un popolo che ha fretta di conservare la propria lentezza: preferiamo i deus ex machina vuoti e fasulli a percorsi lunghi e pieni di sacrifici che potrebbero portare a reali cambiamenti. La conservazione dello status quo ci rassicura, l’immobilismo ci tranquillizza, il nulla ci rende sereni, l’assenza di cambiamento ci rende quasi allegri. Il cambiamento ci terrorizza e ci destabilizza.
Per questo oggi più che festeggiare la fine del tiranno, credo sia molto più opportuno interrogarsi su questo. Cosa farà Monti? Cosa farà il governo che seguirà questa soluzione tecnica uscendo dalle urne tra sei, dodici o diciotto mesi? Dovrà affrontare scelte dolorose e impopolari per rimettere le cose a posto. Se le farà, se sarà capace di cambiare le cose attraverso percorsi difficili e tortuosi, il popolo italiano non gli sarà riconoscente e invocherà piangendo il ritorno del Signore, del padre padrone che tutto fa e a tutto provvede. Lo dice la storia.
E non basta, per scongiurare il pericolo, la definitiva uscita di Berlusconi dalla scena politica. Ci sarà sempre un nuovo Signore pronto a prenderne il posto, e qualora non ci fosse saranno gli italiani a crearne uno ad hoc.
Senza il coraggio di guardarci allo specchio, senza la capacità di comprendere la nostra storia, senza un simile processo di analisi e comprensione di noi stessi, è pressoché impossibile anche solo sperare di cambiare le cose.

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