Integrazione e omologazione

Veciu frut di Ciasarsa
E dal mond, mijàrs di òmis
A van fra Roma e il mar.
Nissùn non ti somèa
Nissùn a sa che tu ti sos il siun
Di un cuàrp, capa centra il mal.

Questa poesia è datata 1943, ed è stata scritta da Pier Paolo Pasolini appena ventenne nel dialetto della sua terra, il Friuli, quella terra che stupendamente definì “un paese di temporali e di primule”.

Vèss òm e vèss puèta… Per la scüra
del crèss tra j òmm, desperdèss nel patí,
per returnà quèl fiìsc de la memoria
che la passiensa l’à sparagnâ nel dí.

Questi versi sono invece di Franco Loi, oggi ottantenne, a mio avviso il più grande poeta italiano vivente, che per tutta la vita ha scelto come mezzo d’espressione il milanese.

Io sò lladro, lo so e mme ne vergoggno:
però ll’obbrigo suo sarìa de vede
si ho rrubbato pe vvizzio o ppe bbisoggno.
S’averìa da capì cquer che sse pena
da un pover’omo, in cammio de stà a ssede
sentenzianno la ggente a ppanza piena.

Qui riporto la parte finale di un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, senz’altro il più celebre autore di versi in romanesco nel XIX secolo.

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä

E per chiudere questa mini antologia la strofa conclusiva di “Creuza de ma” di Fabrizio De André, dove il cantautore ha ricreato, sulla base del genovese, una lingua “mediterranea”, una sorta di idioma sopranazionale diffuso nelle principali città portuali attraverso il flusso eterno delle onde.

Il bisogno di (ri)portare questi quattro esempi di altissima poesia dialettale nasce da una piccola notizia scorsa di sfuggita durante una frettolosa lettura del giornale di oggi. In una scuola elementare della provincia veneta, dopo una visita natalizia dei piccoli alunni in un ospizio, stimolati dalle filastrocche dialettali recitate ai bambini da quei nonni “adottivi”, gli scolari sono stati invitati dalle maestre a ricercare, come compito a casa, tracce delle loro radici, del loro dialetto, delle loro tradizioni.
Il compito assegnato avrebbe suscitato un vespaio di polemiche. È giusto, ci si domanda in sostanza, insistere sui dialetti, sulle specificità regionali, in un momento in cui la società, e di conseguenza la scuola, è sempre più multietnica e sempre più importante appare il bisogno di eliminare le differenze e favorire l’integrazione?
Nonostante la leggitimità innegabile di qualsiasi domanda o dubbio, ponendo così la questione ci si allontana anni luce dal cuore del problema, si rischiano conseguenze devastanti e si finisce per alterare il significato stesso della parola “integrazione”.
Integrare, abbattere le barriere razziali, non vuol dire proclamare e convincersi che gli uomini sono tutti uguali. Perché è vero l’esatto contrario: gli uomini sono tutti diversi. Profondamente diversi. Devono ovviamente essere uguali dal punto di vista sociale e civile: devono avere cioè i medesimi diritti, i medesimi doveri, identico trattamento davanti alla legge indipendentemente dal ceto sociale di appartenenza, dal sesso, dalla religione, dal conto in banca e via dicendo. Ma moralmente gli uomini sono diversi, ed è proprio in questa diversità che risiede la grandezza dell’uomo.
Allora integrazione significa rispettare queste differenze, e attraverso il rispetto esaltarle, illuminarle e progredire. Le società endogene sono destinate alla morte dell’anima, al contrario le società aperte e sanamente mescolate sono illuminate di vita.
Per questo io credo che un bambino di origini e tradizioni algerine, di religione islamica, nel momento in cui viene fatto entrare in contatto con tradizioni e specificità regionali così lontane da lui, non possa che trarne beneficio, non possa che arricchirsi. E allo stesso modo il bambino italiano si arricchisce nella conoscenza e nel rispetto delle origini e delle tradizioni del compagno algerino.
A sbandierare una secondo me inesistente uguaglianza culturale e morale di tutti gli uomini del pianeta, non solo risulta infruttuoso per la soluzione del problema, ma a mio avviso rischia di fare il gioco dei veri responsabili delle disparità sociali, degli squilibri tra nord e sud del mondo, del razzismo nella sua forma più becera e devastante. Dove per responsabili intendo le multinazionali, i “maiores” del mondo e via dicendo, che attraverso quel terrificante processo chiamato “globalizzazione” cercano proprio di eliminare le differenze morali degli uomini, di omologarli, di renderli tutti uguali, ridurli ad un unico pensiero e a un unico codice etico, e di renderli conseguentemente innocui, inoffensivi, docili e obbedienti come agnelli anestetizzati e pronti per il macello.
Quando ancora, fino a qualche anno fa, esisteva ancora quel movimento frettolosamente e in maniera assolutamente svilente chiamato “no global”, all’interno di quelle piazze colorate, lottavamo e gridavamo proprio per questo: per impedire che i grandi della terra facessero uso criminale delle nostre vite e delle nostre radici più profonde omologandoci e rendendoci manichini non pensanti. Purtroppo poi il piombo, i manganelli e i fumogeni non solo repressero quel movimento, ma occultarono anche le reali motivazioni che lo avevano generato.
Ancora oggi io ritengo che la globalizzazione sia il risultato ultimo, e temo senza ritorno, di quel lungo processo di omologazione cui il mondo è stato sottoposto dalla società dei consumi, dalla società della televisione, che è riuscita laddove avevano fallito i grandi regimi totalitari del secolo scorso: lobotomizzare le coscienze e ridurre gli uomini a un unico pensiero.
Per questo è necessario difendere ed esaltare, ovviamente senza alcun fanatismo, le differenze. È necessario capire, ad esempio, che la principale ricchezza dell’Italia sta proprio nelle infinite varietà regionali, se non provinciali.
Ho voluto aprire queste righe frettolose con la voce di quattro poeti perché sono convinto che la poesia possa spiegarsi infinitamente meglio delle mie brutte e pesanti parole. Quei quattro dialetti nobilitati dalla poesia ci fanno sentire le voci delle strade che hanno dato vita a quei versi: in Pasolini sentiamo il suono dei ragazzi contadini delle campagne assolate del Friuli, in Loi avvertiamo tutto il brulicare della più varia umanità a ridosso di San Siro, in Belli possiamo quasi toccare la miseria cinica e disperata delle borgate sottoproletarie romane, e in De André sentiamo tutta la struggente musica dei mercati del pesce a ridosso dei porti del Mediterraneo.