Pearl Jam – “Alive”

Grunge in realtà non voleva dire un cazzo di niente. O almeno non niente di preciso.
Una sorta di neologismo, un derivato dall’aggettivo grungy che non si è mai capito, né mai si capirà, chi lo abbia usato per primo e soprattutto quando e perché si è iniziato a usarlo in relazione alla musica.
Comunque siano andate le cose, significa qualcosa di simile a “sporco”, ma in accezione più brutale, tipo “sudicio”. Che sicuramente, in un primo momento, alludeva solo alla musica. Nel senso che “sporco”, “sudicio”, era il modo di suonare, sporchi erano gli accordi, sporco era il suono restituito. Ovvero il contrario della pulizia leziosa e preconfezionata del pop rock (e pure dell’hard rock) anni 80, che annegava spontaneità e immediatezza sotto chili di sintetizzatori, campionature e trucchi d’ogni sorta.
Era – il termine grunge – una sorta di sintesi orgogliosa del ritorno alla musica, quella senza mediazioni, diretta e maledettamente vera pur nelle sue imprecisioni tecniche.

Solo dopo, e con le cose in pieno corso, lo avrebbero usato per definire un genere musicale. Creando un casino della madonna ed equivoci a ripetizione, perché il grunge non fu mai un “genere” nel senso più stretto del termine. Il grunge fu piuttosto uno stato d’animo che accomunava band diversissime tra loro (Nirvana, Soundgarden, L7, Alice in chains, Pearl Jam… ), ma coetanee e che in quel loro stato d’animo trasformato in musica hanno finito per essere lo specchio di una generazione.
La nostra.
La generazione della rabbia e dell’abbandono, della solitudine e della perdita.
La generazione che nella sua timidezza ha però anche saputo trovare la sua forza, la sua unicità e la sua grandezza.
Quando poi due album come “Nevermind” dei Nirvana e “Ten” dei Pearl Jam fecero esplodere il cosiddetto grunge in tutto il mondo, il termine travalicò la musica e in molti iniziarono a usarlo come offesa e scherno.
Sporchi erano i musicisti. E sporchi eravamo noi, e i nostri vestiti, il nostro modo di indossarli.
Sporca era la moda che stavamo creando.

In realtà, alla fine dei giochi, non c’era nessuna moda e non tentammo nemmeno di crearne una.
Ed era questo che li faceva e li fa tuttora impazzire. Il fatto che fossimo inclassificabili in tutto, a partire dai vestiti. Il fatto che nei negozi di abbigliamento non potessero creare un angolo ad hoc per noi dove succhiarci i soldi.
Non c’era logica nella nostra trasandatezza, le camicie a quadri da boscaiolo potevano abbinarsi agli anfibi o alle scarpe da ginnastica, ai jeans strappati o al chiodo, senza alcun perché.
Non c’era nulla di preordinato, ma un naturale atteggiamento che rispecchiava quella nostra impossibilità di credere in qualcosa.

E se oggi siamo l’unico decennio a non avere feste vintage, non è perché non contiamo nulla, ma perché ancora non riescono a classificarci.
Buon segno, anzi ottimo. Finché infatti riusciamo a sfuggire agli incasellamenti, finché non riescono a trasformarci in mercato, vuol dire che qualcosa di buono abbiamo fatto. E che, checché se ne dica, non siamo stati poi così male come generazione.

Nel 1991, che io ricordo come uno degli anni più piovosi e nebbiosi mai visti, uscì proprio “Ten” dei Pearl Jam, che con “Nevermind” fu simbolo supremo di quella nostra sporca, sudicissima spontaneità generazionale.
Eddie Vedder, che dei Pearl Jam sarebbe diventato il leader, fu l’ultimo a unirsi alla band. Quando arrivò le musiche di “Ten” erano già tutte fatte e rifinite.
Mancavano i testi.
Ci pensò lui, intrecciando fiumi di versi a quei pentagrammi.
E qualunque cosa pensiate di quei versi (che il sottoscritto reputa comunque straordinari), adesso non importa. Conta solo che fossero, al pari della musica, disperatamente sinceri.
In questa, “Alive”, che di “Ten” è la mia preferita, Eddie si mette a nudo con un intimismo feroce e straziante, dando vita a un apologo sulla solitudine giovanile torrenziale e commovente.
Universale senza altro da aggiungere.

Perché eravamo così, noi ragazzi degli anni 90. Timidi e coraggiosi. Perché ci vogliono quintali di coraggio per essere se stessi, per mostrare senza maschere le proprie immense fragilità.

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