Bella Ciao

V’è mai capitato d’ammazzare qualcuno? V’è mai capitato di non sapere se l’uomo che v’è caduto davanti l’avete ammazzato voi o no? V’hanno mai ammazzato un caro davanti agli occhi?
Io ero una bambina. Avevo quattordici anni e solo una bambola. Non avevo nemmeno questa bicicletta, lei è venuta dopo e non era nemmeno la mia. Me l’aveva lasciata lui. Anzi, diciamo che me la sono presa, ma dopo tanti giri mi sembrò giusto che a tenerla fossi proprio io.

Lui era più grande di me, di anni ne aveva diciannove e suonava la fisarmonica. La sera in piazza, d’estate, suonavano sempre, lui e gli altri amici suoi. Ed erano sempre ubriachi. Li chiamavano gli anarchici, perché erano quasi tutti di famiglie tenute d’occhio e perché non c’erano mai alle parate né ai raduni della Gioventù. Ogni tanto passavano qualche guaio, ma niente d’importante. Loro erano ragazzi e in paese li lasciavano stare. Ce l’avevano con i loro padri semmai; ai ragazzi si limitavano a prenderli in giro.

A quattordici anni impazzivo per le feste, ma la mia preferita era quella dell’otto agosto. Quella sera la piazza era…era la musica della banda, era la mia gonna leggera e i miei fermagli ai capelli, era i miei sguardi incantati e i falò lungo le strade per i poggi.

Lui ovviamente era lì con la sua fisarmonica, ma sbagliava sempre gli accordi perché…perché mi guardava in continuazione, guardava me e solo me. E io quegli sguardi me li sentivo tutti addosso, uno dopo l’altro, e dio mio non avevo più fiato e il cuore senz’altro m’è scoppiato addosso quando mi ha sorriso. E volavo, volavo davvero mentre tornavo a casa lungo la discesa dietro la piazza. E chi se lo scorda più come sono saltata quando mi sono sentita chiamare “Stella!”, proprio così, era lui che mi chiamava per nome, lui tutto ubriaco e sudato, lui che mi chiedeva di riaccompagnarmi a casa. Mi ha raggiunta, mi ha preso sottobraccio e parlava, parlava…una raffica di parole che facevo quasi fatica a stargli dietro. Ma ero già innamorata.

Dopo quella sera, lui passava a casa mia tutti i giorni. Arrivava al tramonto, appena finito di lavorare. E arrivava sempre con questa qui, e scampanellava forte per chiamarmi. Parlavamo, lui fumava due sigarette e poi tornava a casa. Poi un giorno andò da lui mio padre e gli disse: “Sono contento che vieni qui tutti i giorni, basta che non metti Stella nei guai con le tue idee”. Lui glie lo promise, e da allora anch’io potevo andare a trovarlo. Andavo a mezzogiorno, gli portavo qualcosa da mangiare e un paio di sigarette. Perché a casa mia c’erano sempre, le sigarette. Mio padre era postino, e quando consegnava la posta a qualche signore gli regalavano sempre uova, polli e sigarette.
Eravamo fidanzati. Lui veniva a prendermi anche la domenica dopo la messa. E una di quelle domeniche io gli dissi: “non mi portare subito a casa”. Allora prendemmo una stradina che portava dritta alla macchia. Siamo rimasti in piedi, sotto un cipresso, a guardarci per non so quanto tempo. Poi io ho preso il suo volto tra le mie mani e l’ho portato contro il mio petto profumato. Lui ha sollevato il viso ad occhi chiusi, annaspando con le labbra fino a trovare le mie. Era il nostro primo bacio.
Qualche mese dopo scoppiò la guerra. Noi continuavamo ogni giorno a stare insieme, sempre di più. Ogni giorno passava a prendermi e ogni giorno mi montava sulla canna della bicicletta, e mi portava a fare un giro per i campi.

Partivano tutti i ragazzi, ma lui no. Lui e quelli che chiamavano gli anarchici no. Avevano dei permessi speciali che gli procurava chissà chi. Dopo seppi che era un medico amico dei francesi a farlo, ma allora non sapevo niente.

Ogni tanto spariva, si riunivano di nascosto da qualche parte. Io provavo a chiedergli qualcosa, ma lui non diceva mai niente. Diceva solo “Ho promesso a tuo padre di non metterti in mezzo”.
Intanto arrivava l’autunno e dei ragazzi partiti non tornava nessuno. Un giorno, dopo aver girato a lungo in bicicletta, gli chiesi di fermarsi in un enorme campo di grano. Io avevo già deciso dal giorno prima: volevo diventare donna, subito, immediatamente. Volevo fare l’amore lì, in quel campo. Lui provò a dire di no, a dire che aveva promesso anche di rispettarmi. Ma io gli dissi “domani potremmo essere morti”, e lui non parlò più. E fu bellissimo.

L’otto settembre fu un fuggi fuggi da incubo. Aspettavano quel giorno da mesi, e quando arrivò tutti i ragazzi scapparono. Lui venne da me trafelato, in bicicletta, con una pistola che gli spuntava dalla tasca dei pantaloni. Non mi disse dove andava, mi disse solo di stare tranquilla e che sarebbe tornato appena avrebbe potuto. Ricompariva di rado, sempre all’improvviso, sempre senza avvisare, sempre più magro e stanco. E restava sempre pochissimo. Ma io insistevo, volevo sapere tutto, volevo aiutarlo, lui e tutti gli altri ragazzi. E non m’importava della promessa che aveva fatto a mio padre. Questa era una scelta mia e solo mia, e dovevano rispettarla tutti.

Una sera allora mi portò alla macchia. Tutti i ragazzi sembravano come impazziti, erano ragazzi di vent’anni che facevano una festa con la musica e il vino. Avevano fatto saltare un ponte, era andato tutto benissimo e non si tenevano dalla gioia. Lui mi prese per mano e fuori dalla cascina dove abitavano mi disse: “quando finisce la guerra, ti sposo!”.

Lo presero d’inverno, nel ’44. Ci fu un rastrellamento terribile. Gli altri riuscirono a scappare, lui no. Lui era in paese dai suoi. Le SS sfondarono la porta di casa sua con un calcio e lo portarono via davanti gli occhi di sua madre. Lo portavano chissà dove. A me lo dissero soltanto la sera. Avevo un dolore così potente che non riuscii nemmeno a piangere. Ma sapevo già cos’avrei fatto: presi questa bicicletta che mi aveva regalato tante gioie e raggiunsi gli altri ragazzi nel loro nuovo nascondiglio. Sarei stata dei loro. Avevo una bicicletta e un mestiere ereditato dal destino: la postina. Avrei cominciato a fare la postina per loro, in guerra, da clandestina. A mio padre dissi che quest’idea me l’ero messa in testa da sola. E gli dissi di stare tranquillo: avremmo vinto noi.
Più d’un anno c’ho passato su questa bicicletta, un anno e passa di corse e rincorse, di messaggi cifrati e lettere segrete in borsa, un anno e passa di posti di blocco e occhi dolci alle SS per passare indenne ai controlli. E di lui nessuna notizia.

Un anno e passa in bicicletta con la morte addosso. Perché anch’io sparavo. E la morte era sempre lì, nei compagni che ti cadevano ai piedi, nelle pallottole che ti sfioravano la fronte, nelle raffiche delle fucilazioni che sentivi a valle. Uno l’ho ammazzato. Era un ragazzo, avrà avuto venticinque anni, era un ragazzo ed era tedesco, era un ragazzo ed era una SS. È stato un attimo, solo io e lui nel buio dell’inizio di una rappresaglia. Non so se ne ho ammazzati altri. Quando c’erano le battaglie a valle, non sapevi mai se quelli che cadevano li avevi colpiti tu o qualche altro tuo compagno.
Sono scesa di bicicletta solo a guerra finita. Quella sera tornarono i fuochi e tornarono i falò, si sparava a festa e io pensavo solo a lui, a lui che non tornava mai, a lui che probabilmente non sarebbe mai tornato. La guerra era finita, non avevo ancora vent’anni e già m’avevano strappato via l’amore dal cuore per sempre.

E invece tornò. Tornò secoli dopo, quando nessuno l’aspettava più. Tornò stremato, magro da far paura, ammalato ma vivo. L’avevano portato a Modena. Poi in Germania, a Bergen-Belsen, campo di sterminio. Aveva gli occhi intrisi di cose che non avrebbe mai potuto raccontare. Avrebbe avuto notti e incubi che nessuno avrebbe mai saputo e che neanch’io sapevo. A me sarebbe toccato svegliarmi con lui e riacciuffarlo per la stanza, accarezzargli i capelli e sussurrargli che tutto andava bene. Ma era tornato, e non importava nient’altro.

Quando me lo dissero non feci altro che riprendere la bicicletta e pedalare come una pazza fino a casa sua. Volavo, volavo davvero. Appena arrivata riuscii a dirgli soltanto “ti ho riportato la bicicletta”. E lui rispose “vuoi sposarmi?”. E finalmente piansi, finalmente piansi tutte le lacrime vecchie di due anni.

Non lo so se abbiamo vinto noi oppure no. So soltanto che lui me l’hanno ammazzato anche se era riuscito a tornare. Me l’hanno ammazzato lo stesso, qualche anno dopo. Me l’hanno ammazzato perché quand’è tornato aveva venticinque anni e camminava con un bastone. Aveva venticinque anni e un cuore debole debole. Me l’hanno ammazzato e ci hanno lasciato sole, me e nostra figlia, che è nata un anno dopo che ci siamo sposati.

Non lo so se abbiamo vinto noi oppure no. So soltanto che ogni volta che mi perdo da sola a girare su questa bicicletta e alzo gli occhi al cielo, penso a lui e quel giorno, quando ho preso tra le mani il suo viso e l’ho portato contro il mio petto profumato. Penso al suo capo che si solleva lentamente e ad occhi chiusi…penso alle sue labbra che annaspano fino a trovare le mie. Penso al nostro primo bacio…
Penso al nostro amore.

(da STORIE D’AMORE E DI BICICLETTA – TERZO EPISODIO)

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