Il cielo sopra Berlino

Fuori è notte e forse piove ma non fa freddo anche se già si scioglie l’estate, si scioglie e si spacca in mille pezzi, pezzi colori e odori di settembre, mentre Francesco piange e ride e si commuove mezzo ubriaco all’ultima fila del cineclub quasi vuoto dove si è rintanato.

Il cielo sopra Berlino svanisce nei titoli di coda, nella pellicola che si riavvolge, nelle luci che si accendono, svanisce ma gli resta addosso e vorrebbe che ricominciasse subito, da capo, all’infinito anche se lo conosce a memoria.

Perché se a tutto questo ci fosse un prologo, allora sarebbe Francesco sedicenne, affamato e impaurito, che parla e cammina e consuma asfalto all’uscita di scuola insieme ad Adriana, compagna di classe e amica e solo amica, anche se in gita c’è stato un bacio che per un po’ li ha fatti pensare. E sarebbe Adriana che gli presta il vhs polveroso di questo film che già il titolo fa sognare. E ancora sarebbe Francesco che lo guarda e piange e s’innamora e impazzisce, perché la storia di un angelo che vede in bianco e nero, ascolta gli uomini parlare soffrire e gridare e poi alla fine s’innamora di una trapezista e per lei smette le ali, è troppo, davvero troppo. Troppo per lui che ha sedici anni e scrive poesie, che ha sedici anni e da grande non vuol fare niente, solo sognare, troppo per lui che ha un cuore ancora troppo piccolo, cuore di sedicenne, cuore già un poco graffiato, cuore ancora troppo piccolo e non sa dove metterla tutta quest’emozione.

Da quel giorno Francesco ha attraversato gli anni, dieci o giù di lì, è passato in mezzo a casini gioie e speranze sempre con questo film nel cuore, visto e rivisto decine di volte, fino a questa notte quando ha sfidato asfalto e temporale imminente per raggiungere il cineclub e vederlo ancora, e chi se ne frega se lo conosce a memoria, vuoi mettere sul grande schermo?

Francesco, quasi trent’anni e il tempo dei viaggi e dell’avventura che sta per finire, Berlino non l’ha mai vista, ma ce l’ha nel cuore. Per Francesco Berlino è sogno, è cielo, è Wim Wenders e poesia, è bianco e nero, è circo, è Damiel e Cassiel, è Marion.

Finita la proiezione fuori dal cineclub è sempre più notte, non piove ma è piovuto, non fa freddo ma l’estate ormai s’è sciolta, dissolta, frantumata. Strade deserte, Firenze arrotolata nelle case e Francesco che gira a vuoto ubriaco e randagio, un film addosso e nessuna voglia di tornarsene a casa.

Pensa a Marion, pensa a Damiel che s’innamora di Marion, pensa che anche lui vorrebbe girare e girare, vedere in bianco e nero, ascoltare gioie e sofferenze e poi incontrare Marion, incontrare una trapezista e per lei rinunciare a tutto, anche alle ali.

E poi Livia, Livia che è una storia finita prima dell’estate, Livia che gli piomba in testa all’improvviso, Livia che è una storia che per forza non risorgerà.

Livia perché ti ho lasciata, tre mesi fa, una vita fa, Livia non mi ricordo perché ti ho lasciata, Livia non esistono perché, Livia io un giorno mi sono svegliato e non ti amavo più, Livia tu eri lì ad aspettarmi e io sputtanavo serate a mandare sms a una ballerina, Livia tu eri mia e io ho distrutto ogni cosa.

Livia non riuscivi a dirmi ti amo, ma poi me l’hai detto al telefono, un filo di voce, che ero lontano chilometri e chilometri ed è stato dolcissimo. Livia tu eri dolcissima e adesso non c’è più niente, niente dei baci, delle carezze, dei vaffanculo che saettavi ai genitori per passare una serata con me, una serata soltanto, un’altra ancora. Livia quando ti ho lasciata senza darti un motivo, uno straccio di motivo, non hai detto niente, non hai aperto bocca e hai pure pianto in silenzio.

Francesco s’infila in un pub, il primo che incontra per strada. Non c’è molta gente ma la voce di Bono Vox che canta Where the streets have no name lo convince a restare. Prende una Guinness, poi un’altra. Potrebbe berne cento per quanto è sfatto e ubriaco. Alla fine si annulla, in testa ha soltanto Berlino e negli occhi i clienti del pub.

Una cameriera ha gli occhi neri, nerissimi, i fianchi larghi e deve chiamarsi per forza Sabrina. Sorride, aperta e disponibile. Sicuramente non è nata e non vive in città, ma in qualche paese vicino: Scandicci, Sesto Fiorentino, Grassina, e sicuramente abita in un monolocale minuscolo che gli hanno intestato i genitori, un monolocale minuscolo pieno di soprammobili, con il letto basso e il colore blu dappertutto.

Sabrina adesso non è fidanzata ma deve esserlo stata, più di una volta, forse due, forse tre. Forse tre volte senza cambiare mai, stessi pregi e stessi difetti. Sempre la stessa ansia di sentirsi indispensabile, la stessa smania consolatrice e materna, la stessa pazienza di ascoltare e capire, lo stesso spalancare le braccia e accogliere tra i suoi seni enormi visi stravolti e sconvolti. Lo stesso bisogno, ogni volta, di cercare maschi senza direzione, selvaggi e sconclusionati fino all’inverosimile per avere l’illusione di crescerli e inquadrarli. E quando poi tutto finisce lamentarsi per aver dato tanto e non aver ricevuto nulla in cambio.

Sabrina deve fare anche una qualche università, ma senza fretta né convinzione, tanto l’affitto non lo paga e il pub la mantiene quel tanto che basta. Un giorno forse farà qualche scuola per interprete in una città del nord, oppure al diavolo le scuole e ne aprirà uno tutto suo, di pub.

L’altra cameriera invece la battezza Letizia, o Romina. È più giovane di Sabrina, per forza universitaria e senza dubbio fuori sede. Matricola o al massimo al secondo anno.

Letizia o Romina freme, è appena venuta via da qualche paesino insignificante dell’Abruzzo, del Molise o della Puglia, un qualsiasi paesino su cui sparla e sputa merda ad ogni occasione, un qualsiasi paesino a cui tra qualche anno ripenserà con le lacrime agli occhi.

Letizia o Romina freme, smania, ha occhi nocciola che s’accendono per ogni cosa. Letizia o Romina vuole vivere, vuole essere libera, non vuole legarsi e ha l’aria di chi venendo via di casa ha lasciato il fidanzato storico con cui a diciassette anni progettava figli e avvenire, l’aria di chi si conquista l’indipendenza giorno per giorno, ora per ora, passo dopo passo. E deve ribadirlo ogni volta, a se stessa e al mondo intero. Perché certamente lui, il suo ex, la chiama ancora almeno una volta la settimana. E sbraita, sclera, non capisce. E lei non sa mai cosa dire, perché a volte l’attraversa il pensiero d’aver sbagliato ogni cosa, ma lo scaccia via subito e prega che lui s’arrenda e non la chiami mai più.

Forse Letizia o Romina fa storia dell’arte, e a giudicare dagli occhi è il periodo che legge e divora ogni libro, che guarda e divora ogni film, e se non doveva lavorare ci sarebbe stata senz’altro anche lei al cineclub a vedere Il cielo sopra Berlino.

A metà della seconda Guinness Francesco è innamorato. Le ama, le ama tutte e due, ama Sabrina, ama Letizia o Romina e ama le vite che gli ha cucito addosso. Le ama e non ci può fare niente. Francesco ha sempre avuto il debole per le cameriere e non può fare a meno d’innamorarsene, sempre di quelle dei pub e un po’ meno di quelle dei ristoranti. Ama il loro incedere da equilibriste tra tavolo e tavolo, ama la grazia con cui distribuiscono birre e patatine, ama il loro piroettare leggero verso il bancone, ama la destrezza con cui ritirano e accatastano i posacenere, ama il sorriso con cui annotano le ordinazioni nei blocchetti sfiniti, ama il sorriso con cui si destreggiano in mezzo al casino.

Getta un occhio al tavolo accanto dove stanno cinque ragazze e due ragazzi, un gruppo variopinto dove nessuno pare entrarci niente con gli altri. Sicuramente anche loro universitari e sicuramente anche loro fuori sede, matricole. Prime settimane di corsi, smarrimento cosmico, giornali di annunci e inserzioni sempre nello zaino, tasche stracolme di volantini, spese da controllare, lavatrici fallimentari, giornate in silenzio, telefonate a casa col groppo in gola, amicizie posticce.

Seguiranno lo stesso corso e nell’aula piena zeppa di borse zaini fiati e appunti si sono riconosciuti, hanno riconosciuto lo stesso sguardo spaesato e inebetito e a quello sguardo ci si sono aggrappati come all’ultima spiaggia. E la più coraggiosa, quella nerovestita e con gli occhi pensosi che potrebbe anche chiamarsi Asia, a fine lezione ha preso coraggio e ha organizzato l’uscita, un’uscita al primo pub che le è venuto in mente, un’uscita all’unico pub che conosce. E fra qualche mese ognuno avrà preso la sua strada, ognuno avrà fiutato i suoi simili, ognuno a suo modo avrà la sua avventura da vivere e non si vedranno più, s’incontreranno di fretta nei corridoi tra una sessione e l’altra e ognuno fingerà d’avere nel libretto più esami di quelli che ha dato.

E poi in mezzo a loro c’è lei, Luisa o qualcosa di simile, Luisa che non parla mai, Luisa che è pallida e ha addosso vestiti sformati, Luisa che è grassa e non può piacere a nessuno, Luisa che sicuramente non fa nemmeno la loro università ed è lì solo perché è la coinquilina di qualcuno, senz’altro di Asia, la nerovestita dagli occhi pensosi.

Luisa ha quasi vent’anni ma non ha mai baciato nessuno, Luisa ha quasi vent’anni e nessuno l’ha mai voluta baciare, Luisa ha combattuto per anni contro la cattiveria del mondo ed è sempre stata sconfitta. Luisa adesso non vuole più bene nemmeno a se stessa, ha genitori che anche adesso che se n’è andata vegliano su di lei, quattro telefonate al giorno e Luisa non ti fidare, Luisa non uscire, Luisa stai attenta, Luisa tu non puoi fare questo, Luisa tu non ce la farai mai a fare questo, Luisa tu non sei come tutti gli altri.

Ma ascoltami Luisa, domani stacca il telefono, domani non rispondere, domani vivi e basta, domani dimentica qualche ferita, domani respira. Luisa non sarà facile convincere gli uomini all’amore ma anche tu ce l’avrai e te lo prometto, Luisa non sarà facile convincere gli uomini all’amore ma comincia a volerti bene tu domani, adesso, subito.

Francesco vorrebbe prendere un’altra birra, ma ormai il pub sta chiudendo e non servono più niente nemmeno al bancone.

Francesco allora si alza e si scaraventa per strada, ancora per strada, e ritorna a pensare a Marion. Ritorna a pensare che vuole trovarla anche lui una trapezista o qualsiasi altra cosa, basta sia una Marion a cui donare ogni cosa. E Sabrina non è Marion, Letizia o Romina non è Marion e nemmeno Livia è Marion, nemmeno Anna è Marion. Marion è ancora lì, da qualche parte del mondo ad aspettarlo. E ci crede, ci crede davvero che Marion esista e che lo stia aspettando, come crede che esistano gli angeli, ci crede sul serio anche se non l’ha mai detto a nessuno.

E mentre cammina sbanda e barcolla, gli viene in mente quell’altro film, quello di Frank Capra dove un angelo pasticcione deve guadagnarsi le ali e mostra a un uomo disperato come sarebbe la vita degli altri se lui non fosse mai esistito. E alla fine del film tutto si risolve, suonano i campanelli e quell’angelo mette le ali.

Quell’angelo si chiama Clarence e Francesco pensa che Clarence sia proprio un nome meraviglioso per un angelo. E poi non sa perché, ma pensa che pure gli aquiloni sono angeli, angeli di carta che riflettono angoscia e leggerezza di ogni esistenza.

Francesco adesso si ferma. Il cielo sopra è tornato limpido ma adesso fa freddo, cristo santo se fa freddo. Guarda la luna e pensa che gli somiglia. Sente la testa che scoppia e balla e fa casino e non è sbronza, ma è un’orgia di idee.

Francesco adesso vuole scrivere, vuole scrivere di nuovo e non annegare, scrivere di nuovo e salvarsi. Vuole scrivere di angeli, aquiloni, angoscia e leggerezza, della luna che sicuramente gli somiglia.

Pensa io Marion ti aspetto, ti aspetto senz’altro e ti giuro che saprò riconoscerti, ti riconoscerò perché tu sarai la ragazza/aquilone, l’unica al mondo e l’unica nella vita. E adesso andrò a casa e scriverò di te ragazza/aquilone, scriverò di te principessa, scriverò di te e ti dipingerò come un girasole. E scriverò di me e stavolta mi chiamerò Clarence, e scriverò di me e stavolta mi dipingerò come la luna.

Scriverò che io sono la luna e tutta la notte brillo alla ricerca del girasole che amo.

Scriverò che quando ti troverò t’irradierò di luce e di tutto il mio amore.

Scriverò e sarà solo per te, Marion, girasole, principessa, ragazza/aquilone.

Riccardo Lestini, dal romanzo “Amore e disamore”

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