Il virus dell’idiozia
Dopo oltre un mese di silenzio, riecco il mio blog ai blocchi di partenza.
Di cose, nel periodo non collegato, ne sono accadute ovviamente a iosa: la riapertura delle scuole, le elezioni, l’inizio del campionato di calcio, fatti di cronaca a dir poco agghiaccianti, la nuova risalita dei contagi da Covid-19 in tutta Europa.
Le scuole sono aperte da quasi un mese, un lasso di tempo che già consente di fare un bilancio, per quanto inevitabilmente provvisorio.
I problemi ci sono stati e ci sono tuttora, in alcuni casi di entità a dir poco importante, come sapevamo e come era inevitabile che fosse.
Ma nonostante questo, il sistema non è crollato e, soprattutto, come dicono gli esperti, l’impatto della riapertura sulla risalita dei contagi al momento (il che non vuol dire che non lo sarà in futuro) è molto più che contenuto.
Il che è una notizia quanto meno incoraggiante, anche se qualcuno pare dispiacersene. Probabilmente sono gli stessi che nei mesi precedenti hanno giocato a dire tutto e il contrario di tutto, che quando la scuola sembrava non poter ripartire hanno parlato di scandalo perché la ripartenza era indispensabile, e quando la scuola sembrava ripartire hanno parlato di scandalo perché sarebbe stata una carneficina.
Gli stessi che per mesi hanno fatto di tutto (a volte, ahimè, riuscendoci) per trasformare problemi ventennali della scuola (tagli del personale, assenza di spazi sicuri, classi pollaio, meccanismo infernale e farraginoso delle nomine dei supplenti, incapacità di elaborare un investimento a largo raggio sull’istruzione per garantire la stabilizzazione dei docenti) in emergenze causate dalla pandemia.
Gli stessi che si sono assolti dalle loro colpe verso l’istruzione accusando il ministro Azzolina di ogni cosa. Che Azzolina non si distingua per grandi capacità è anche il mio pensiero, ma non è certo colpa sua l’assenza ventennale di investimenti sulla scuola.
Dispiace soprattutto, in questo balletto sconcertante di tuttologi da strapazzo che per una quindicina di giorni si sono eletti a superesperti di scuola (già oggi se ne sono scordati), che il polverone abbia completamente dimenticato migliaia di docenti e dirigenti scolastici che hanno lavorato per settimane, senza orari e senza alcuna retribuzione, per rendere con le proprie mani gli edifici il più sicuri possibile.
Sarebbe bello che qualcuno se ne ricordasse, quando torneremo a spalare fango sul personale fancazzista della scuola.
Sarebbe bello, ogni tanto, vincere l’idiozia dell’università della vita.
Poi le elezioni, dove come al solito hanno vinto tutti, anche se in questo caso i dati lasciavano meno spazio al gioco delle infinite interpretazioni possibili.
Ha dichiarato vittoria Salvini, nonostante i numeri lo abbiano condannato in ogni dove, nonostante le vittorie del centrodestra siano state nette soltanto dove Salvini è stato messo da parte (in Veneto è stata l’apoteosi di Zaia, in Liguria di Toti), nonostante sia fallita anche la più remota ipotesi di spallata al governo (anche in Toscana, dove ha rivendicato l’aver tenuto testa al PD nella sua roccaforte, ha comunque perso l’8% rispetto alle elezioni precedenti), nonostante l’avanzata poderosa di Fratelli d’Italiae metta in discussione la sua stessa leadership nella coalizione. Non è che non capiamo in base a quale colpo di follia Salvini abbia potuto sostenere la vittoria, semplicemente restiamo basiti per quanti fedelissimi abbiano potuto credergli.
Ha dichiarato vittoria Zingaretti, nonostante si sia trattato soltanto di un limitare i danni e di vittoria vera non ce ne sia alcuna traccia. Chiaramente, visti i pronostici della vigilia, un mezzo miracolo per di più rimpolpato dagli ottimi risultati ai ballottaggi, ma il tutto reso possibile da uno strano patto con i Cinquestelle che non solo non sembra proprio riuscire a trasformarsi in un’alleanza stabile e organica (con tanto di programma chiaro e progetti a lunga scadenza), ma che genera ancora più confusione – qualora ce ne fosse bisogno – circa l’identità del Partito Democratico. Quasi sconvolgente come una fetta enorme di popolazione continui a chiamarla “sinistra”.
Sono riusciti a dichiarare vittoria anche i Cinquestelle, nonostante nelle elezioni regionali siano letteralmente spariti dai radar della competizione. A parte i rumors interni che rischiano di far implodere il Movimento, c’è comunque la netta affermazione del SI da mettere sul piatto per Di Maio, ma senza una legge elettorale che possa sostenere questa (per me avventata, per non dire sciagurata) riforma, con una maggioranza tutt’altro che solida per partorirla e votarla, rischia di diventare il peggiore dei boomerang.
Perché è questo che più di ogni altra cosa avvilisce: la mancanza di progettualità, la superficialità delle istituzioni che si accontentano di piantare bandierine fregandosene di lasciare in eredità democrazie pericolosamente monche. E avvilisce come alla maggioranza questa superficialità non solo vada bene, ma sia addirittura auspicata, in una tragica liturgia della semplificazione a tutti i costi.
Poi, tra una boutade e l’altra, sono andate in scena tragedie a dir poco sconcertanti. il barbaro omicidio di Wlly Duarte (di cui abbiamo già parlato in queste pagine), il duplice delitto del giovane arbitro De Santis e della sua compagna…
I soliti sociologi della domenica che occupando ogni spazio possibile si sono sperticati nella gara alla dichiarazione più geniale, hanno parlato di “autismo affettivo”.
Fatico a trovare definizione più pericolosa. L’autismo è un disturbo dello sviluppo di cui, chi ne è affetto, non ha alcuna colpa. Mutuando tale termine, è come se assolvessimo la realtà collocando il male – nel senso più generico del termine – al di fuori di essa, e quindi totalmente indipendente dalla nostra volontà.
Quando invece tragedie simili sono figlie di una determinata cultura colpevolmente sottovalutata (se non addirittura, subdolamente e indirettamente, fomentata) e che prolifera ovunque attorno a noi.
Sarebbe bello pensare impegnarsi a costruire una società degna di essere vissuta, anziché assolversi e vivere nella più atroce e colpevole delle indifferenze.
Infine il campionato di calcio, storico oppio dei nostri tempi che, alla sua riapertura (ma di fatto, quando mai si è concluso?), è andato fatalmente e assurdamente a intrecciarsi con la pandemia, quasi sopravanzando l’emergenza sanitaria, o quanto meno ponendosi al centro di esso.
Francamente, se l’1% dell’interesse verso Juventus – Napoli e l’1% dell’energia profusa nel parlarne fossero indirizzate verso le fabbriche in quarantena, le casse integrazione e le imprese in ginocchio, penso che in una settimana a diritti e a efficienza supereremmo le socialdemocrazie scandinave. E avremmo un PIL superiore a quello cinese.
Così il (tragico) filo conduttore di tutte queste settimane tumultuose, dove ricomincia lo scontro all’ultimo sangue tra i nazisti del terrore sociale e i nazisti del più folle negazionismo (lotta dove a uscirne sconfitto sarà, come sempre, soltanto il buonsenso) è l’idiozia, quella colossale e senza speranza che esiste da sempre ma ultimamente sta galoppando a tutta velocità ovunque.
Un virus per cui sarà probabilmente impossibile trovare un vaccino.
La cui fotografia è il presidente Donald Trump, che positivo e con carica virale ancora presumibilmente altissima, non rinuncia allo spot elettorale uscendo dall’ospedale per farsi fotografare in macchina mentre saluta la folla.
E non è lui la fotografia del virus dell’idiozia, ma tutti quelli che tra meno di un mese – è la mia previsione – lo rieleggeranno presidente del paese più potente del mondo.
Amen.