Guerra Fredda: dove come quando e perché (l’equivoco di Jalta)
1.L’equivoco di Jalta
La cosiddetta strategia della tensione (che in Italia ha trovato uno dei suoi centri nevralgici, ma ha avuto come raggio d’azione il mondo intero) è una diretta conseguenza della Guerra Fredda e della logica dei blocchi contrapposti. Senza dubbio la conseguenza più torbida, tragica e violenta.
Ma dove, come e quando ha origine la Guerra Fredda?
La vulgata comunemente accettata indica come atto costitutivo della spartizione del mondo in aree di influenza, e quindi della Guerra Fredda, il celeberrimo vertice di Jalta, dove pochi mesi prima della fine della Seconda Guerra Mondiale (febbraio 1945) si incontrarono i principali artefici della prossima (e a quell’altezza cronologica ormai certa) sconfitta della Germania nazista: Roosevelt, Churchill e Stalin.
In realtà attorno a Jalta si è consumato uno dei più giganteschi equivoci della storia contemporanea, che ha finito per distorcere completamente significati e contenuti effettivi di quel vertice, nonché l’intera dinamica di genesi e sviluppo della Guerra Fredda. Un equivoco nato non da chissà quale volontà superiore di insabbiamento, ma – anzitutto – da un approccio decisamente superficiale e smanioso della semplificazione a tutti i costi. Ovvero una cattiva storiografia che pretende di trovare una causa unica di eventi complessi e che ha purtroppo invaso la manualistica scolastica.
Lo svolgersi alle porte della fine del conflitto, la celeberrima fotografia che ritrae insieme i tre protagonisti, le parole rilanciate per decenni del generale De Gaulle che vedeva in Jalta l’origine della “sovietizzazione” dell’oriente (senza tenere conto che il giudizio tranchant di De Gaulle era figlio dell’irritazione per il mancato coinvolgimento della Francia nel vertice), l’intento della destra repubblicana statunitense di presentare all’opinione pubblica la concessione di mezzo mondo ai comunisti come un cedimento fatale del democratico Roosevelt, sono solo alcune delle concause che contribuirono a creare il “mito di Jalta”. Mito tra i più duri a morire e che trova una corrispondenza decisamente scarsa nella realtà storica.
Ancora oggi (forse soprattutto oggi) usiamo la locuzione “logica di Jalta” per indicare sommariamente qualsiasi situazione critica determinata dalla contrapposizione dei blocchi, ma in realtà – come vedremo – la Guerra Fredda, e quindi i principali eventi della storia mondiale dal 1945 al 1991, non nasce dalle decisioni di Jalta, ma dalla loro mancata applicazione.
Andiamo con ordine.
Una sorta di prova generale di Guerra Fredda va in scena già nel primo dopoguerra, allorquando le potenze occidentali, a seguito della rivoluzione d’ottobre, accerchiano la Russia bolscevica. È una situazione che se da un lato, e in maniera nemmeno troppo indiretta, lascia campo libero ai totalitarismi nazifascisti (i regimi di Mussolini, Hitler e Franco nascono in un sostanziale silenzio/assenso delle forze liberali, convinte di usarli come argini contro il comunismo sovietico), dall’altro perdura immutata fino alla messa in atto della “Operazione Barbarossa”, ovvero l’attacco nazista all’URSS del giugno 1941, evento che rende necessaria una convergenza contro il nemico comune.
Ma la divisione resta netta e insanabile anche nella convergenza. Quindi una certa “base” della futura Guerra Fredda c’è già prima ancora che i capi di stato delle forze in questione si incontrino ufficialmente.
Ogni guerra, alla sua conclusione, disegna un nuovo ordine. Ma in questo caso pur essendoci chiaramente e nettamente degli sconfitti, non c’è un vincitore. O meglio ce ne sono due, nessuno dei due “più vincitore” degli altri, non alleati ma semplicemente convergenti e in conflitto “sotterraneo” da molto prima della guerra.
Se andiamo a ricercare nella storia precedenti per qualche verso analoghi e vagamente paragonabili, il superamento di questa situazione è sempre stata la prosecuzione del conflitto, o la sua ripresa a breve distanza. Questa volta – ed è qui che troviamo l’elemento di assoluta novità – non è possibile. Il numero gigantesco di vittime, gli orrori e le distruzioni inimmaginabili, uniti alla nuova consapevolezza della potenza mostruosa delle armi nucleari, rendono impraticabile l’ipotesi di uno scontro frontale tra i due schieramenti vincitori.
Perciò gli incontri, ufficiali e non, che si terranno regolarmente dal 1942 in poi, rappresentano il tentativo di trovare un equilibrio post bellico che non contempli lo scontro armato. La logica delle sfere d’influenza è solo una delle ipotesi, e sicuramente non quella prefigurata a Jalta.
A parlare per primi della divisione dell’Europa in blocchi sono Churchill e Stalin, durante la conferenza di Mosca, nell’autunno del 1943. Gli Stati Uniti non solo non partecipano al vertice, ma a quell’altezza cronologica non forniscono alcuna indicazione in merito, il che porta tanto i britannici quanto i sovietici ad abbozzare un primo accordo circa la spartizione del continente europeo dove il peso americano è praticamente inesistente.
Secondo quanto ci dicono le carte del summit di Mosca (nonché i preziosi diari di Churchill), l’accordo prevedeva la divisione al 50% della Jugoslavia (il nord all’URSS e il sud al Regno Unito), Ungheria, Romania e Bulgaria all’80% sotto l’influenza sovietica e la Grecia interamente sotto il controllo britannico.
Un quadro provvisorio e tutt’altro che definito, ma che rispecchia in pieno interessi e volontà tanto inglesi quanto sovietiche.
La Gran Bretagna infatti, da un lato perseguiva il suo antico disegno di una pace basata sull’equilibrio e sul bilanciamento dei poteri in Europa, dall’altro conservava – garantendosi l’influenza sull’Europa del sud – quel ruolo di controllo e di potenza egemone nel Mediterraneo che le velleità di Mussolini avevano tentato di contrastare.
Di contro l’URSS, assicurandosi il controllo degli stati orientali, vedeva realizzato un progetto a lungo inseguito, ovvero la messa in sicurezza contro attacchi esterni grazie a una cintura territoriale di paesi alleati.
Il limite del disegno approntato a Mosca è evidente. Tanto Stalin quanto Churchill ragionano secondo schemi geopolitici secolari e non colgono (né evidentemente vogliono farlo) gli stravolgimenti dei rapporti e delle gerarchie internazionali che proprio la seconda guerra mondiale andrà a suggellare. Sono così legati alle logiche passate che sembrano dare per scontato il disinteresse americano per i destini europei.
Sappiamo che non sarà così.
Gli USA, rappresentati dal presidente Roosevelt, entrano prepotentemente in scena qualche mese più tardi, alla conferenza di Teheran, mettendo sul piatto un’idea degli scenari mondiali post bellici in netto contrasto con quella anglorussa.
Fino a quel punto la politica americana era stata divisa tra due spinte contrarie (e trasversali): una “universalista” e una “isolazionista”. La prima, preponderante nelle classi colte della east coast e fortemente spinta dai vertici finanziari di Wall Street, mentre la seconda era forte nella provincia e sostenuta dalle lobby militari.
L’universalismo americano, nella sua corrente più liberal e progressista, si era affacciato sulla scena alla fine della prima guerra mondiale con il presidente Wilson, subito però sconfitto e sovrastato dall’isolazionismo più radicale, un nazionalismo fondato sulla totale assenza di “alleanze condizionanti” (sia economiche sia militari) e che avrebbe dominato la scena statunitense nei “ruggenti anni venti” fino alla crisi del ’29.
Roosevelt, insieme al New Deal, aveva rilanciato fortemente la visione universalista di Wilson, sia per l’orientamento liberoscambista in campo economico sia, più in generale, per un disegno internazionale che prevedeva una vastissima tessitura di alleanze.
A dare credito e sostegno – all’interno degli USA – all’orientamento di Roosevelt, sono valutazioni più realistiche che ideologiche. Ovvero, per gli USA una politica isolazionista così come era stata disegnata e perseguita negli anni venti, non era più possibile. Erano diventati troppo potenti con interessi plurimi e distribuiti “a macchia” per tutto il pianeta, e perciò “costretti” a sostituire la vecchia e declinante madrepatria inglese nel ruolo di principale potenza mondiale.
Su queste basi e forte di un largo sostegno interno, alla conferenza di Teheran Roosevelt impone una revisione pressoché assoluta degli accordi precedenti.
Ovvero, pur concedendo qualcosa in merito alla spartizione dei Balcani, il presidente americano disegna un nuovo ordine internazionale basato sulla collaborazione perenne tra le grandi potenze (alle tre protagoniste del vertice si sarebbero dovute aggiungere la Francia e la Cina) in una sorta di “supergoverno” espresso dalle Nazioni Unite, con gli USA nel ruolo di locomotiva dell’economia mondiale.
Quanto stabilito a Teheran sulla spinta di Roosevelt, è molto più che una bozza.
Quando si arriva a Jalta infatti è già tutto abbastanza delineato e le conclusioni di Teheran un dato di fatto. Per capire definitivamente come Jalta non solo non fu il vertice decisivo (ben più importante, abbiamo visto, fu appunto quello di Teheran), ma che non fu affatto la genesi della futura Guerra Fredda, non serve chissà quale interpretazione storiografica, basta la semplice lettura dei documenti. I quali ci dicono che i tre capi di Stato in otto giorni affrontarono diverse questioni: il futuro della Germania, il sistema di voto nella nascitura Organizzazione delle Nazioni Unite, il ruolo della Francia, i Balcani e, soprattutto, la questione polacca (della Polonia si parla ben sette giorni su otto). Di contro, non solo manca completamente qualsiasi accenno alle zone di influenza, ma si parla – per di più con molta enfasi – dell’importanza dell’indipendenza delle singole nazioni e dell’autodeterminazione dei popoli.
Ma allora cosa determinò, di lì a pochi mesi, l’inversione di rotta e il ripristino della logica delle aree di influenza?
Come, dove e quando nacque la Guerra Fredda?
(continua)