Nanni Moretti – “Caro diario”

Se dovessi raccontare il mio 1993 (che per qualcuno sarà sicuramente anche il “nostro”) al cinema in una manciata di film (diciamo una decina o poco più) sarebbe molto, ma molto complicato. Diciamo impossibile. Perché il 1993, come già il 1991 già raccontato, fu anno ricco, ricchissimo piuttosto e anzicheno di pellicole memorabili, gigantesche, eccezionali. E poi mi dici che gli anni novanta… Ad ogni modo, l’abbondanza di bellezza che ci ha regalato quest’anno, impone almeno due post. E non poteva essere altrimenti: parliamo del 1993 (sì, gli anni 90 a questo punto sono cominciati davvero… ), ovvero l’anno in cui a febbraio l’immenso maestro FEDERICO FELLINI vince l’Oscar alla carriera (ma vi ricordate che momento commovente? Con la Loren e Mastroianni che gli consegnano il premio più emozionati di lui… e il Maestro che saluta Mastroianni dicendogli “ciao Marcellino”… e poi dedica il premio a Giulietta Masina che in sala non trattiene le lacrime), e poi, purtroppo, a ottobre dello stesso anno, ci lascia.
Ecco, non è vero, però mi piace lo stesso pensare che questo splendido anno al cinema sia una specie di omaggio inconscio a uno dei più grandi colossi della storia della settima arte.

Due post dicevamo. Quindi, via con la prima parte.
Anno strano, questo 1993 al cinema. Anzitutto, caso più unico che raro, scarseggiano i “tormentoni fregatura”, ovvero film brutti, pessimi, trashissimi, o semplicemente delusioni cosmiche, pompate in maniera esagerata da una pubblicità martellante e invadente. Attenzione… non ho detto che sono assenti, solo che scarseggiano rispetto al solito. Al punto che ne rammento soltanto uno, ovvero quel Proposta Indecente che è stato senza dubbio il film più pubblicizzato dell’anno e, suo malgrado (e purtroppo dico io), quello che più è entrato nell’immaginario collettivo. Film brutto, improbabile, lento, con sequenze da incubo, è stato comunque il “caso” dell’anno e un fenomeno di costume destinato a durare. Leggendaria la battuta che Peppe G. urlò al cinema quando Demi Moore tornò dal marito dopo il rapporto con il miliardario, ma non la posso ripetere. Pregio della pellicola, aver risolto miliardi di serate. Nel senso, entriamo nell’epoca dell’incomunicabilità cosmica e la gente non sa più che cazzo dirsi. Stare tutta la sera a fare sondaggi sul “ma tu ci andresti con uno che ti offre un milione di dollari?” ha risolto centinaia di serate mosce e mute. Il fatto che nel film il miliardario fosse Robert Redford e che quindi il “sacrificio” fosse decisamente trascurabile (brutalmente: vai a letto con Redford e ti pagano pure!), non ricordo se e quanto venisse messo sul piatto della discussione.
Comunque, per quanto non siamo nel terreno del film “erotico”, è sempre una storia che ruota attorno a una tematica sessuale. Perché – vedi puntata precedente – l’eros conturbante, riflessivo e introspettivo, è marchio di fabbrica di inizio decennio. Con risultati, ahimè, bassissimi. Se Proposta Indecente è semplicemente un brutto film, terribile è Sliver, nuovo erotic thriller con Sharon Stone costruito apposta per bissare il successo di Basic Instinct. Ora, Basic Instinct era una cagata, Sliver pure, con l’aggravante che, in questo secondo caso, Sharon Stone non accavalla nemmeno le gambe.

A bomba, come si suol dire, andiamo dalle cagate cosmiche ai capolavori assoluti.
Il 1993 è l’anno di Film Blu, con la divina Juliette Binoche, inizio della superba e indimenticabile “trilogia dei colori” del maestro polacco Kiewslowski. Lucido, severissimo e devastante apologo sulla vita che sconfigge il dolore e il desiderio di nulla nonostante tutto. Sulla vita che continua sempre e comunque. Splendido, non lo vidi al cinema; mi prestò il vhs due-tre anni dopo un caro amico di sventure e, negli anni universitari, divenne una mia ossessione.
Altro capolavoro assoluto M. Butterfly, probabilmente il vertice assoluto del genio di Cronemberg; storia incredibile (sì, davvero non c’è altro aggettivo possibile) tra USA e Cina che in una struttura metanarrativa segue il filo dell’opera pucciniana (la protagonista è l’interprete della Butterfly all’opera di Pechino) è un gioco di specchi e clamori, eros e tanatos all’ennesima potenza, dove niente è ciò che sembra e la chiave è proprio nel punto di quella M del titolo. Nemmeno questo lo vidi al cinema, me lo offrì come il più bello dei regali il gigantesco prof. Edoardo Bruno al corso di Storia e Critica del Cinema il primo anno dell’università. E S.R., che era con me a lezione, a fine proiezione commentò dicendo “roba da diventa’ grulli!!”.
E poi ci fu lo splendido, incredibile, Nightmare Before Christmas – questo sì, visto al cinema, per fortuna, e nel momento esatto della sua uscita – una fiaba animata commovente e sognante, partorita dal genio infinito di Tim Burton e realizzata in stop motion dal grandissimo Henry Selick. Che quelli, santiddio, erano gli anni del “rinascimento” Disney, quando la casa madre di Topolino sputava fuori uno dietro l’altro cartoni del calibro de La Sirenetta, Aladdin, La Bella e la Bestia, Il Re Leone… mica era facile quegli anni lì fare un cartone fuori dal marchio Disney e farsi notare!

Anno intenso e importante anche per il cinema italiano, dove, tra molte pellicole notevoli e interessanti, c’è spazio per il capolavoro.
Da ricordare, senza dubbio Sud di Salvatores, che sicuramente è meno “spendibile” di Puerto Escondido e soprattutto molto, ma molto al di sotto del galattico Mediterraneo, ma resta comunque un gran film (e ragazzi, chi lo fa in Italia un film all’anno di questo livello?) e a me piacque da morire. E piace da morire ancora oggi.
C’era poi tutto il filone del “cinema verità” e del “cinema inchiesta” che, nei primi anni 90, cercava di farsi genere e rinverdire da un lato i fasti del neorealismo (alcuni critici lo battezzarono “neoneorealismo”, cioè quei film che dalla fine degli anni 80 presero le mosse dal film “caso” Mery per Sempre), dall’altro del cinema civile degli anni settanta. Con risultati altalenanti e un senso finale di frustrazione, una specie di vorrei ma non posso, sempre un passo – o, ahimè, molti, moltissimi passi – sotto le ambizioni e le aspettative di partenza. Emblematici in questo senso i due film che più ricordo di quel 1993: La Scorta di Ricky Tognazzi (che dopo aver diretto Ultrà cercò proprio in questo campo la propria identità) e Giovanni Falcone di Ferrara, con Michele Placido nella parte del magistrato assassinato l’anno prima. Due pellicole riuscite a metà: la prima si incarta nelle storie private degli agenti non riuscendo ad elevarle ad esempio universale, la seconda ha tutti i limiti dell’instant movie realizzato in fretta e in furia per il primo anniversario di Capaci, che – soprattutto – per quanto pregevole, non scatena quel moto di indignazione civile che ci si aspetterebbe da un lavoro simile.

Splendido fu invece Jona che visse nella balena di Roberto Faenza, primo tentativo tutto italiano di rappresentare la tragedia dell’olocausto. È un film, come ho avuto modo di vedere e sentire negli anni, che suscita reazioni contrastanti. Addirittura, c’è chi spesso e volentieri lo dimentica al momento di stilare una filmografia sull’olocausto.
A me piacque – e piace – da morire. Al cinema, ricordo, restai a bocca aperta, quella bocca aperta che accompagna i titoli di coda e ti impedisce di alzarti dalla poltrona per dieci minuti buoni. Certo, la Shoah è qualcosa di immenso, talmente immenso che per essere rappresentata necessita, o quanto meno fa pensare naturalmente, a un kolossal (Spielberg docet, come vedremo nella prossima puntata). Una dimensione, quella del kolossal, che mal si sposa con le ristrettezze economiche delle produzioni nostrane. Eppure, la grandezza del film di Faenza è proprio tutta qui, nella sua “piccolezza”, nell’assenza di grandi scene di massa, in come riesce a farci entrare nel cuore dell’orrore attraverso gli occhi di una minuscola famiglia e, soprattutto, quelli incantati del piccolo Jona. Indimenticabile.

Caso a parte Il Piccolo Buddha di Sua Maestà Bernardo Bertolucci.
Proprio in virtù del discorso fatto sopra, è difficile considerare questo film pluripremiato alla notte degli Oscar come “italiano”, visto che di italiano ha soltanto il genio del regista. Tutto il resto, dagli attori alla magnificenza e soprattutto alla grandezza e all’opulenza della produzione, è spudoratamente americano. Pioggia di consensi e riconoscimenti meritati: il film è uno stupendo ossimoro, ovvero un omaggio hollywoodiano alla grandiosa povertà del silenzio interiore, equilibrio impossibile che solo Bertolucci poteva cogliere; soprattutto, è un saggio di regia come nella storia del cinema se ne sono visti veramente pochi. Poi io all’epoca al cinema mi addormentai. E oggi faccio un po’ di resistenza a rivederlo. Perché preferisco l’altro Bertolucci, quello intimo e quello sanguigno. Quello di Ultimo Tamgo e di Novecento insomma. Perché il cinema sì, è tecnica e forma. Ma senza emozione, resta la fredda formula di un teorema.

Quell’anno uscì pure lo splendido Magnificat dei fratelli Taviani. Ma io me lo persi. Colpevolmente, lo vidi oltre dieci anni dopo. Meno male che le opere d’arte non hanno la data di scadenza…
Vidi invece, e non una ma due volte per quanto mi piacque, Il Grande Cocomero di Francesca Archibugi. Di lei avevo amato alla follia Mignon è partita (ancora oggi, a rivederlo, mi emoziono più ripensando al cuore che mi si piantò in gola per una settimana dopo quella prima visione che per il film in sé), e andai al cinema gonfio di aspettative. Non fui deluso: un inno alla vita disperato e leggerissimo, la psichiatria infantile trattata con una sensibilità che scuote le fondamenta del nostro essere. E un Castellitto monumentale tanto per gradire.

Ma a sceglierne uno, uno soltanto, di questi grandi film italiani datati 1993, la mia scelta cade inevitabilmente su Caro Diario. Ovviamente premiato a Cannes con standing ovation e Palma alla Miglior Regia, uno dei vertici (probabilmente, assieme a Bianca, il capolavoro massimo) del genio di Nanni Moretti, che qui trasforma definitivamente Michele Apicella in se stesso. E, appena quarantenne, già svolta portando il suo cinema in una ulteriore maturazione. Senza porsi il problema, è lui, Moretti, e non il presunto cinema verità, a trasformare la micro storia in Storia universale, a muoversi come la miglior tradizione neorealista di Rossellini in equilibrio tra fiction e documentarismo, in un metacinema assoluto per cui il documentario trasfigura nell’invenzione e l’invenzione assurge oggettività documentaristica.
Capolavoro assoluto, all’epoca mi svelò il Maestro Moretti. Fu un incontro fatale e io, giovane cinefilo entusiasta come si è solo a diciassette anni, in dieci giorni mi vidi tutta la sua filmografia. A partire da quei Ecce Bombo e Bianca che non avrei più smesso di guardare.
Qui la sequenza finale del primo episodio, il muto viaggio all’idroscalo di Ostia, luogo dove Pier Paolo Pasolini fu barbaramente assassinato.
A proposito di che cos’è l’indignazione civile e come la si ottiene…

#jukebox
#anni90
#gliAnniNovantaAlCinema

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