Nirvana – “Smells like teen spirit”

Pare che le cose siano andate più o meno così.
A Seattle (perché ogni cosa, all’epoca, nasceva a Seattle), durante una notte brava (e sì che ancora si chiamavano così, le notti di quel tipo), Kathleen Harina, una ragazzina (che tutti, sempre all’epoca, eravamo ragazzini) che sarebbe diventata la voce delle Bikini Kill (c’era musica dappertutto, di nuovo all’epoca, a Seattle… e il bello era che da Seattle arrivava come polline nel resto del mondo), prese la vernice spray e scrisse, a caratteri cubitali, sul muro della casa dell’amico con cui aveva vagabondato tutta la notte:
KURT SMELLS LIKE TEEN SPIRIT
ovvero “Kurt”, che era l’amico del vagabondaggio notturno, “odora come il Teen Spirit”, che era un deodorante per adolescenti molto in voga all’epoca.
E siccome Kathleen pensava che il Teen Spirit fosse un pessimo deodorante, scrivendo quella frase voleva prendere in giro l’amico. In altre parole, voleva dire “Kurt puzza”.
Ma l’amico Kurt, che per l’appunto coi deodoranti aveva pochissima familiarità, non sapeva manco cosa fosse, il Teen Spirit. E non curandosi della T e della S maiuscole, prese la frase scritta dall’amica alla lettera, pensando che lei volesse dirgli, poeticamente, come profumasse di spirito giovane, di giovinezza, di purezza.
Passarono poi gli anni.
Anzi no, passarono solo i mesi, perché tutto, in quel tempo lì, andava alla velocità della luce. E quel Kurt lì, che di cognome faceva Cobain, assieme a due amici, Krist e Dave, dentro un garage aveva messo in piedi un gruppo rock chiamato Nirvana.
L’idea che avevano, quei tre e tutti gli altri ragazzi loro coetanei rinchiusi in ogni fottuto garage di Seattle e dintorni (e da lì, ancora, come polline in tutto il mondo), era di disarmante semplicità: fare musica. Nel senso… musica e basta, nuda e cruda. Niente effetti, niente sintetizzatori, niente luci stroboscopiche, raggi laser, fumi, campionature. Niente costumi di scena, niente lustrini, niente trucchi, niente finzioni, niente foto in posa, niente personaggi, niente maledettismi, niente show.
Musica. Solo strumenti, amplificazioni, voce. E anima. Tanta, tantissima anima. Vera, autentica, sanguinante.
Non lo sapevano mica – Kurt, i Nirvana e tutti gli altri che suonavano chiusi dentro quei garage – ma avevano appena inventato il grunge.
E non lo sapevano manco quelli della Sub Pop, che questi gruppi che si ispiravano a questi principi qua li producevano e li facevano incidere.
Ecco, proprio con la Sub Pop i Nirvana avevano inciso un piccolo disco d’esordio, “Bleach”.
Tiratura limitata, passaggi alle radio (e solo quelle locali e indipendenti) col contagocce, concerti in club minuscoli e in condominio con altre band.
Eppure, nel mondo della musica indipedente e underground, quel piccolo disco andò bene. Molto bene.
E la cosa importante era che bastava così, a Kurt e a tutti gli altri. Quello che tutti faticarono a capire allora e che molti faticano a capire ancora oggi è che al grunge, ai Nirvana o chi per loro, e soprattutto a noi pischelli di quegli anni lì, andava davvero bene così, vale a dire che davvero non ci interessava lo show, ma la musica, non il successo, ma l’anima sanguinante del garage.
Ad ogni modo, l’andamento discreto di “Bleach” fece sì che i Nirvana fossero notati da una casa discografica appena appena più grandicella, la Geffen, e che entrassero in sala di incisione per il secondo disco.
Era il dicembre del 1990.
Materiale ne avevano. Cristo santo se ne avevano… roba tipo “Come as you are”, “In bloom”, “Lithium”, vale a dire roba che avrebbe fatto la storia.
Ma tra storia e leggenda c’è un abisso. C’è un qualcosa che non è solo “bello” o “grande”, qualcosa che non si limita a “funzionare”, ma che letteralmente cattura e sintetizza lo spirito di un’epoca, di una generazione. E fa scoppiare il cervello mandando all’aria ogni cosa.
C’è quella che si chiama “canzone perfetta”. Che poi piaccia o non piaccia, è addirittura secondario. Sempre “perfetta” resta.
E quel dicembre del 1990 Kurt, il ragazzo che non usava né conosceva i deodoranti, entrò in sala d’incisione con in testa una melodia e un riff ancora confuso.
“Non so bene cos’è”, disse agli altri ragazzi, “ma credo sia la canzone perfetta”.
Quel riff, ma soprattutto quell’abbozzo di melodia – che poi si sarebbe sviluppata nella linea vocale del ritornello – a Krist, il bassista, faceva schifo. Eppure, racconta lui stesso, ci sentiva qualcosa dentro di irresistibile, proprio quella “canzone perfetta” di cui parlava Kurt. E lo sentiva così tanto, quel qualcosa, che suonò il riff per tre ore consecutive, fino a rallentarlo facendosi accompagnare da Dave alla batteria, mentre Kurt aggiungeva una parola dopo l’altra.
Il risultato fu un brano in Fa minore con un riff formato da quattro bicordi eseguiti con quella che gli esperti chiamano “sincope semicroma”, ovvero un effetto che interrompe il normale flusso del suono eseguito in un sedicesimo.
Fu un brano che con una serie di immagini rapsodiche e libere analogie, raccontava la solitudine e la rabbia di una generazione.
Fu un brano che, suo malgrado, finì per parlare di tutti noi e a tutti noi, ragazze e ragazzi degli anni ’90.
Fu un brano che Kurt, sapendo come la nostra generazione fosse figlia di un gigantesco equivoco storico, volle intitolare come il più colossale equivoco della sua adolescenza:
SMELLS LIKE TEEN SPIRIT
Che per quanto criptica e a tratti sfuggente fosse e sia, niente e nessuno come quella canzone ha saputo mai raccontare cosa eravamo, cosa siamo stati e addirittura cosa siamo ancora oggi, nonché cos’erano e cosa furono gli anni ’90.
Quelli che poi dissero – e continuano a dire – come non fosse altro che “l’inno dei giovani spenti” e della “X Generation”, non furono altro – e continuano a non essere altro – che la conferma della sordità trita e triste (e pretestuosa) degli adulti di ogni tempo verso le nuove generazioni.
Quella stessa sordità che, anziché cercare di capire, fece – e fa – liquidare il tutto con la storia che il grunge non vale nulla, che Cobian fu un pessimo musicista e che gli anni 70 (e 80 e 60 e via dicendo) erano tutta un’altra cosa. Dimenticando – e rifiutandosi di ascoltare – tutta la storia che c’era dietro e oltre la musica. E dimenticando anche, tra le altre cose, come nessuno, più della nostra generazione, ha idolatrato gli anni 70.
Ma soprattutto – e questo il delitto – dimenticando noi. La nostra storia, i nostri valori, i nostri dubbi e i nostri perché.
Una storia che in pochi hanno avuto il coraggio di raccontare.
Kurt Cobain, lo volesse o no, fu uno di quei pochi.
Riuscendoci più di ogni altro e. soprattutto, quando quel settembre 1991 SMELLS LIKE TEEN SPIRIT inondò le radio e i negozi di dischi esplodendo come un razzo a livello planeterio, facendoci sentire meno soli.
Che per quanto dura e ruvida sia, per quanto sgraziata e sincompata, la canzone questo è: un immenso abbraccio a ognuno di noi…

 

 

 

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