L’enigma senza fine del mostro di Firenze

Funziona così da sempre: proprio quando pare di essere arrivati a una conclusione, proprio quando non se ne parla più da tempo, ecco che di colpo spunta fuori qualcosa che rimette tutto in discussione. Che fa ricominciare tutto daccapo, incubi compresi.
La storia del cosiddetto “mostro di Firenze”, la più lunga, spaventosa, torbida, intricata e misteriosa della storia della cronaca nera italiana, è a tutt’oggi un enigma, un sentiero accidentato punteggiato di misteri, contraddizioni, dettagli mancanti, piste interrotte, muri di omertà.
Mezzo secolo di indagini (oggi sono cinquant’anni dal primo dei duplici delitti in qualche modo ascrivibili al “mostro”), tre processi, decine di indagati, centinaia di testimoni, infiniti tronconi secondari aperti e archiviati di continuo, non sono bastati a scrivere verità accettabili e definitive.
Anche laddove le certezze sembrano affermarsi oltre ogni ragionevole dubbio, laddove il dimostrato supera di gran lunga il supposto (ad esempio la colpevolezza dei cosiddetti “compagni di merende” in almeno quattro degli otto duplici omicidi), restano gigantesche zone d’ombra, dubbi, contraddizioni, misteri senza soluzione. E che hanno suggerito – e continuano a suggerire – scenari sempre più inquietanti e vertiginosi.
Del resto, nella storia di ogni crimine, e soprattutto nella storia di ogni indagine, l’arma del delitto è il “tronco” su cui regge tutto il resto. Qui, nella complessa – e a suo modo pazzesca – storia del “mostro”, ciò che manca e che è sempre mancato (e che continuerà a mancare) è proprio l’arma del delitto. Un’assenza che da sempre rende tutto più incerto, più fragile, meno dimostrabile e meno definitivo. E se poi a questa assenza si aggiunge una serie impressionante – e imbarazzante – di errori e ingenuità investigative ai limiti del grottesco, il buio è molto più che totale.
La “novità” (virgolettato d’obbligo) che in questi giorni riaccende per l’ennesima volta i riflettori sulla vicenda, contiene entrambi gli elementi: la pistola e l’errore. Nello specifico, un’ennesima perizia ha rinvenuto l’ogiva di un proiettile presente nel cuscino di Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichivili, le ultime vittime della catena di delitti, massacrati in località Scopeti nel 1985.
L’ogiva non solo, per 33 anni, è incredibilmente sfuggita a qualsiasi perizia e rilevamento ma, stando alle prime indiscrezioni, potrebbe non appartenere alla pistola che da cinquant’anni manca all’appello, quella Beretta Calibro 22 da cui proverrebbero i proiettili Winchester serie H (gli unici che da cinquant’anni sono stati puntualmente rinvenuti e repertati). L’ogiva sarebbe di altro proiettile e di altra pistola.
Il che porterebbe di colpo sulla scena una seconda pistola, aprendo scenari inimmaginabili e vertiginosi, costringendo – come accaduto di continuo – a riscrivere buona arte della bibliografia esistente in materia.
Resta da chiedersi, al di là di tutto, perché.
Perché tutta questa approssimazione, oggi come ieri, sulla vicenda di cronaca più importante della storia del nostro paese, perché questa clamorosa sciatteria. Perché, ad esempio, sin dagli anni ’90 nelle più accreditate ricostruzioni del delitto degli Scopeti si parla di “un proiettile che manca” e solo oggi, a 33 anni di distanza, si effettua sugli effetti delle vittime un’analisi accurata e approfondita.
Perché, soprattutto, questa totale mancanza di rispetto verso i parenti delle vittime. Che oltre a gridarlo, il bisogno di verità, sono gli unici ad averne sacrosanto diritto.

#resistenzeRiccardoLestini

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