Storie di manine e di manone

Per chi come me ha avuto la sventura di crescere negli anni ottanta, la prima immagine che si compone in testa alla parola “manina” è l’infernale gingillo appiccicoso che si trovava nelle patatine, che in teoria doveva arpionarsi a qualsiasi superficie e in pratica, già al terzo tentativo, non si attaccava più a un bel niente.
Il pensiero di intellettuali e musicologi invece corre invece alla “gelida manina” di pucciniana memoria, mentre sognatori, idealisti ed eterni fanciulli trovano ancora nella manina un simbolo della più pura fratellanza.
Ma ecco che nel gioco della più sedimentata associazione di idee messa in atto dalla nostra memoria, irrompe a sparigliare le carte la singolare – unica nel suo genere – sitcom messa in scena dal governo gialloverde.
Un po’ Pirandello e un po’ Casa Vianello (che oltre ad accontentare tanto i palati fini quanto le bocche buone fa pure rima), il grottesco ménage à trois dove uno leggeva, l’altro scriveva e il terzo ascoltava (che ricorda nell’ordine: una barzelletta con l’italiano, l’inglese e il francese; il testo de “I soliti accordi” di Rossi/Jannacci; Totò, Peppino e la Malafemmena), nonostante la semplicità elementare del plot si è sorprendentemente tinto di giallo e di mistero. Ma siccome il commissario Montalbano, colto in uno dei rarissimi periodi di assenza dai palinsesti, ha marcato visita, l’enigma è rimasto tale e nessuno ha capito un tubo di cosa sia successo. Soprattutto, nessuno ha capito di chi fosse questa fantomatica manina malandrina. E come alla fine di un film di Lynch, ogni spettatore è stato lasciato solo a darsi la sua personale interpretazione, che 99 volte su 100 è sbagliata perché 99 volte su 100, proprio come nei film di Lynch, in realtà non è successo un bel niente e sostanzialmente lo spettatore è stato preso per il culo.
Con tutto che pure sul copyright della manina ci sarebbe da discutere, visto che il simpatico diminutivo non è la prima volta che fa il suo ingresso in parlamento. Al crepuscolo della prima repubblica, in una seduta infuocata, Craxi tuonò insinuando che una manina, ovvero quella di Andreotti, aveva fatto sparire certe carte, mentre Andreotti, da par suo, rispose che forse era stata una manona, ovvero quella di Craxi.
Anche in quel frangente, guarda caso, i due che si rimpallavano malignamente l’accusa, erano alleati di governo. Ma in quell’occasione l’oggetto della discussione erano le carte del “memoriale Moro”, misteriosamente rinvenute a dodici anni di distanza nell’intercapedine di un appartamento milanese, e non una finanziaria che in teoria è una rivoluzione e in pratica è una manovrina.
Del resto qualcuno, illo tempore, diceva che la storia non si ripete, e se disgraziatamente si ripete la replica sarà per forza una farsa.

Avanza una manciata di righe per parlare di sport dove, giustamente, in settimana ha tenuto banco l’impresa delle ragazze del volley, che contro ogni pronostico hanno sfiorato l’oro ai mondiali.
Epopea annacquata dalle discussioni grottesche attorno a Paola Enogu, tra le protagoniste della cavalcata delle azzurre.
Certo che finché un’atleta di colore verrà trasformata nella bandiera dell’antirazzismo e contemporaneamente nel pretesto dei più beceri attacchi razzisti, resteremo molto lontani dall’essere, in termini di integrazione, un paese normale.

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