La notte dei lunghi coltelli

Al termine delle ventiquattr’ore più nere della storia della sinistra italiana, con il PD travolto da un’emorragia di consensi senza precedenti e messo definitivamente all’angolo della scena politica nazionale, il segretario Matteo Renzi si presenta ai giornalisti da solo, senza nessun altro esponente del partito a condividere, simbolicamente e scenograficamente, la clamorosa debacle.
Tutti – dai militanti agli elettori, dai compagni di partito agli avversari, dai cronisti agli spettatori – si aspettano l’atto politico, non tanto dovuto quanto indispensabile, delle dimissioni. Così è: Renzi si dimette, ma il suo passo indietro contiene un “però” gigantesco ed esplosivo, che non solo rende ancora più ingarbugliato uno scenario politico già di per sé complicatissimo, ma rischia di distruggere definitivamente un partito già in frantumi.
Quelle che rassegna sono infatti dimissioni “congelate” e “differite”. Vale a dire che saranno effettive in un dopo imprecisato, dopo l’insediamento delle camere, dopo il congresso, dopo le primarie. Un tempo potenzialmente lunghissimo e concretamente indefinito che di fatto trasforma le dimissioni in “non dimissioni”.
Le parole, pesantissime e clamorose, cambiano anche il senso simbolico del suo presentarsi in sala stampa da solo. Quella che sembrava una totale assunzione di responsabilità è invece un atto di forza in piena regola, una (ennesima) prova muscolare e un mettersi in trincea. Non contro gli avversari, ma contro il suo stesso partito. Nel dettare la linea delle settimane e dei mesi a venire (nessun traghettatore, nessun reggente a gestire al posto suo la fase delicatissima delle consultazioni al Quirinale, nessuna trattativa per la formazione del governo, nessun nome di transizione fino a nuove primarie) scaglia accuse come macigni contro l’intero gruppo dirigente del PD. Non fa nomi (tranne quello di Minniti), ma a chi siano diretti gli schiaffi è fin troppo chiaro. In primis contro Franceschini e tutta la sua corrente, accusati di essere i principali “inciucisti” (ovvero i dem favorevoli a dare sostegno a un governo pentastellato) e i principali manovratori di una ipotetica reggenza. E nel gruppo degli inciucisti finisce anche, e soprattutto, Gentiloni, che pure appartiene alla corrente renziana. Non risparmia i ministri, colpevoli di essere stati, in campagna elettorale, troppo tecnici e incapaci di parlare alla gente. Spara a zero addirittura contro Mattarella, colpevole di non aver sciolto le camere dopo il referendum (se si fosse votato nel 2017, sostiene Renzi, il risultato sarebbe stato ben diverso).
Da queste parole allo psicodramma, il passo è brevissimo. Nel giro di poche ore tutti i dirigenti dem direttamente chiamati in causa rispondono, increduli per le mancate dimissioni e furiosi per le accuse gettate addosso. È il caos più assoluto. Un partito dilaniato da due anni di scissioni e abbandoni illustri è a un passo dall’implosione definitiva. Una specie di drammatica, e al momento senza soluzioni, notte dei lunghi coltelli.
Cosa succederà nei prossimi giorni è davvero difficile dirlo.
Ma al di là dei possibili scenari futuri, al di là della lotta fratricida scatenatasi, le parole di Renzi sono oggettivamente, e sotto ogni punto di vista, sconcertanti. Marco Travaglio commenta a caldo: “mentre lo ascoltavo pensavo che da un momento all’altro arrivasse qualcuno a portarlo via con la camicia di forza”. Al di là del suo solito linguaggio colorito, il direttore de “il Fatto Quotidiano” ha assolutamente ragione. Quello di Renzi è un discorso folle, sconsiderato e irresponsabile.
Non c’è, nel suo discorso, nessuna ammissione di colpa, nessuna assunzione di responsabilità. Come è possibile che davanti a un tonfo così pesante (guardiamolo in prospettiva più ampia: dieci anni fa, alle elezioni del 2008, pur uscendo sconfitto, il PD prese oltre il 30%) il segretario, il candidato premier, l’uomo che ha accentrato su di sé la scena politica degli ultimi quattro anni, non riconosca a sé stesso nemmeno un errore, un passo falso, una strategia errata? Come è possibile pensare di essere anche solo credibile dando colpe a chiunque tranne che a sé stesso? È come minimo grottesco. Non una dimostrazione di forza, ma un’autoreferenzialità violenta, sprezzante e dannosa.
Così come grottesco è l’attacco riservato ai vincitori delle elezioni: “se siete tanto bravi, sapete che c’è? Governate da soli se ci riuscite”. Un linguaggio terrificante, ai limiti del bambinesco, molto oltre l’assurdo.
Stesso dicasi per le mancate dimissioni. Certo la strategia di differirle nel tempo è chiara. Renzi punta prima di tutto a non sparire dalla scena e a ricostruirsi una verginità in nome della coerenza (avevo detto nessun accordo con i Cinquestelle e per coerenza e onestà mi faccio garante del mantenimento di questa promessa, è il suo ragionamento). Ma presa e calata nel contesto specifico che si è venuto a creare è totalmente irresponsabile. Lasciando stare l’ulteriore pantano aggiunto allo stallo istituzionale, è irresponsabile soprattutto nei confronti del suo partito e dei suoi elettori.
Un partito spaccato, distrutto, ai minimi storici, con una base depressa e smarrita, per di più in uno scenario generale delicatissimo, di tutto aveva bisogno tranne che di ulteriori esasperazioni, polarizzazioni dello scontro e inutili personalismi. Il PD in questo momento avrebbe, al contrario, bisogno di moderazione, pacatezza e toni bassi, di bagni di umiltà e pause di riflessione per ripartire da zero. Questo Renzi non lo capisce o non lo vuole capire, e continua ostinato e inarrestabile nella sua opera chirurgica di distruzione di quel poco che rimane.
Le dimissioni effettive e istantanee sarebbero state tanto un atto politico dovuto quanto un necessario segnale di distensione. Con tutto che stiamo parlando del PD, ovvero un partito che, qualunque cosa si pensi a riguardo, si porta dietro una storia tanto pesante quanto importante. Una storia con cui, chi pretende di guidarlo, deve necessariamente confrontarsi e fare i conti. Una storia che, tra le tante cose, parla di dimissioni e passi indietro responsabili nei momenti più bui. Veltroni e Bersani, tanto per dire, si fecero da parte per molto, molto meno.
Certo sarebbe totalmente sbagliato, e cieco, ridurre e riassumere le ragioni di questa sconfitta nella persona di Matteo Renzi. Come scrivevo appena due giorni fa, più che la causa Renzi è l’effetto di una decadenza progressiva e inarrestabile che affonda le radici molto lontano. E finché la sinistra non guarderà (e capirà) le ragioni di questa progressiva decadenza in un’ampia prospettiva storica, difficilmente cambieranno le cose.
Con o senza Renzi. Che in ogni modo, a questa vertiginosa e più che decennale caduta, ha dato la spallata più misera, ingloriosa e definitiva.
È arrivato con il proposito di rottamare la vecchia politica.
Ha finito per rottamare soltanto il suo partito e i suoi elettori.

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#resistenzeRiccardoLestini

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