“Come facevano le ragazze andaluse”

Accadeva l’impossibile quell’estate, anno 2000 e stupendi e maledetti ventitre anni, che tutto correva a velocità supersonica e non c’era verso di fermarsi e pensare ed era un piacere stare sempre lì, nel flusso eterno del mondo, e non chiedersi come mai.
E una sera di quelle arrivò la ragazza andalusa, così, come spuntando fuori dal nulla, quando avevamo appena finito di recitare e io bevevo e ridevo, con la matita ancora negli occhi che in vent’anni e passa di teatro ancora non ho imparato a struccarmi. Mi disse bravo, la ragazza andalusa, è stato bellissimo lo spettacolo e anch’io faccio teatro a Sevilla. Mi chiamo Ainara, disse ancora, e lo disse come si canta una canzone. Ed era vestita di bianco, Ainara ragazza andalusa, sandali ai piedi e braccialetto alla caviglia, occhi duri e immensi come pietre preziose e capelli lunghissimi che ovunque spargevano profumi di fine del mondo e Gibilterra, marinai e mercati, porti e pirati, spezie e onde del mare. Il mare. Dev’essere una meraviglia vederti danzare, pensai.
E Ainara, ragazza andalusa che quell’estate girava il mondo, si fermò con noi tra il fumo delle canne e le scenografie da smontare, e rideva e parlava ed era uno squarcio nella notte di Firenze, lì, al parco di San Salvi dove avevamo appena finito di recitare.
Vuoi venire con noi a Monte Morello?, mi chiese più tardi. E io la seguii, inevitabile, tragico e ventitreenne, già innamorato, su una Panda scassata insieme a lei e ad altri tre sconosciuti. Ed era solo buio, a Monte Morello, buio pesto, solo squarci e lampi di luce lunare negli improvvisi e brevissimi diradarsi dei cipressi. E in quel buio Ainara mi baciò, potente, definitiva, e finalmente la sua pelle levigata come un sasso del Mediterraneo e l’origine del mondo nei suoi seni immensi e nei suoi fianchi che m’avvolgevano come una danza. Venne l’alba alla fine, alba a strapiombo sul corpo nudo di Ainara, ragazza andalusa, e io che le dissi vedi, crescono le orchidee spontanee quassù a Monte Morello, e ne colsi una e glie la misi tra i capelli. Mi chiese perché e io, fottuto intellettuale che vive di carta libri e parole, le dissi perché lo scrive Joyce nell’Ulisse, quando alla fine Molly Bloom dice “quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse”. E allora fallo anche tu Ainara, ragazza andalusa, che si dice che in Andalusia ci siano le ragazze più belle del mondo e non m’importa, sei tu la ragazza più bella del mondo, mio fior di montagna, mi vida, mi amor.
Ero pazzo quell’estate, anno 2000 e stupendi e maledetti ventitre anni, che tutto correva a velocità supersonica. Così la mattina, tornati a Firenze, a Santa Maria Novella non salutai Ainara al binario 8, ma presi il treno con lei e insieme sulla rotaia mordemmo e sbranammo la costa ligure e attraversammo il confine a Ventimiglia e in Costa Azzurra ci fermammo e facemmo il bagno e il nero infinito degli occhi di Ainara, ragazza andalusa, brillava e brillava sfidando il tramonto e tutto era rosso e di nuovo colsi un fiore e ancora glie lo intrecciai ai capelli e ancora “quando mi misi la rosa tra i capelli come facevano le ragazze andaluse”. E sospirava forte, Ainara, quella notte percorrendo e imparando il mio corpo col mare nero senza increspature e striato dai riflessi del faro, finché nuda e immacolata e celeste, con me che le impazzivo dentro, mormorò in un soffio quasi cantando “Y yo mientras iré dentro de tu cuerpo dulce y debil, siendo yo, mujer, tù misma, y estando en tì para siempre…”.
Doveva tornare in Spagna quel giorno, e poi prendere un aereo per l’Argentina. A fare cosa di preciso, in Argentina, non lo sapeva nemmeno lei. A scoprire, conoscere, vedere se c’è qualcosa da fare tra Buenos Aires e la Pampa. Per quanto tempo chissà, sei, sette, otto mesi, un anno, forse per sempre. Vieni con me?, mi chiese all’alba. Vengo con te?, certo mi vida, mi amor, mio fior di montagna, mia follia vestita di bianco che profumi di scirocco. Vengo con te ma non posso, non posso proprio, ho il teatro, mille cose, fra sei mesi mi laureo e maledetto me che baratto la vita e l’amore con sentieri tracciati. Allora Ainara, ragazza andalusa, prese un fiore e se lo mise fra i capelli e fu lei, stavolta, a dire “come quando mi misi la rosa tra i capelli come facevano le ragazze andaluse”.
Poi mi baciò, ci salutammo e presi il treno da solo e da solo riattraversai il confine a Ventimiglia, da solo sbranai e morsi sulla rotaia la costa ligure, tornai a Firenze e la sera dopo avevo un altro spettacolo e sei mesi dopo mi laureai e attraversai gli anni, anni di vittorie sconfitte e cadute e pianti e bestemmie e gioie e amori e lavori e convivenze e traslochi e morti e piatti rotti e bollette e attese inutili e felicità improvvise e batticuori e delusioni e giorni e giorni e giorni, fino a oggi, quasi quarant’anni, che ancora non dimentico e ancora sospiro sulla poesia di Garcia Lorca che dice “Y yo mientras iré dentro de tu cuerpo dulce y debil, siendo yo, mujer, tù misma, y estando en tì para siempre…”, che ancora non dimentico e ancora sospiro su Joyce che scrive “come quando mi misi la rosa tra i capelli come facevano le ragazze andaluse”, che ancora non dimentico e ancora ti penso e ancora ti rimpiango e ancora tu, Ainara, ragazza andalusa, dove sei?

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